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Baciami ancora: ecco cosa ne pensa la critica

Baciami ancora” è il sequel de “L’ultimo bacio” diretto da Gabriele Muccino ed uscito il 29 gennaio 2010. Ecco cosa ne pensa la critica, vi mostriamo al cuni giudizi provenienti da diverse testate. E voi, l’avete visto? Cosa ne pensate?

Roberto Nepoti – La Repubblica:

(…) Ora la posta in gioco è diventare finalmente persone più mature. Muccino lo racconta, saltando come gli piace fare, da un personaggio all’altro. Un po’ inventario di luoghi comuni, arcilogori ma anche veri, dell’amicizia e dell’amore. Ma va bene, Muccino è così, anche se con un po’ di freschezza in meno.

Alessio Guzzano – City:

Stella, Accorsi non ha perso il vizio: anni di corna hanno messo in fuga la moglie de “L’ultimo bacio”, così in fuga da essersi trasformata in Vittoria Puccini, pittorica coi lucciconi di rabbia o di passione. Pasotti invece non ha perso il pelo, anzi. E va bene che Muccino è stato lontano dal made in Italy, ha fatto amicizia con Will Smith (citato) e dato spessore yankee al suo stile sempre alla ricerca della felicità in cui ci si identifica, ma truccare come Johnny Glamour (by Giovanni) un ex carcerato in Colombia che ritrova il figlio, è un autogol. O forse è l’emblema del suo smuccinare in patria: piccole tragedie che non ce la fanno a restare serie e romanticismo in subbuglio che sai sempre come va a finire perché quelli che si erano tanto amati si ameranno sempre. Il ‘generazionale’ Muccino agita bene il cocktail piacione, tra porte che si aprono e prati che si schiudono. Quello che non gli riesce è il dolore vero (altro autogol: ricalcare il lutto di “Saturno contro”). Santamaria sclera, il bravo Favino quasi, la bravissima Sabrina Impacciatore, unico personaggio non bamboccio, paga con l’esclusione dal lietofine collettivo. Le fontane all’Eur sono secche come i sogni dei brontosauri 40enni, immaturi Jovanotti. E c’è sempre quello che parte…

Lietta Tornabuoni – La Stampa:

Uno vuol tornare con la moglie dopo anni di separazione. Uno scarica sulla moglie nevrotizzata dalla sterilità le proprie frustrazioni violente. Uno depresso vuole uccidersi. Uno è reduce dalla prigione all’estero, comminatagli per spaccio di droga, e non sa come ricominciare. Uno irriducibile vuol continuare la propria vita di ragazzo viaggiatore. Hanno quarant’anni. Sono i cinque amici protagonisti d’un film corale di nove anni fa diretto da Gabriele Muccino, L’ultimo bacio, non particolarmente memorabile; (…) Gabriele Muccino sembra avere una creatività insufficiente a trasformare l’aneddotica in fenomeno sociale. Così le sue storie di amori e disamori si allineano una dopo l’altra, con la mancanza di senso e di significati che dà al film una notevole piattezza narrativa e drammaturgica. Per altri versi Baciami ancora è ben girato, ben montato, ben musicato. Bene interpretato, non proprio: il personaggio di Favino risulta più uno squilibrato che un geloso maschilista; i personaggi femminili secondari sono troppo simili tra loro per non apparire inidentificabili; Accorsi (che fornisce pure una voce narrante superflua) è spesso uguale a se stesso e molle, in qualsiasi circostanza si trovi. Troppo spesso i personaggi si trovano davanti alla porta chiusa di un appartamento. Infine, non giova alla credibilità del film l’eccesso di oggetti lussuosi e costosi pretesi dalla pubblicità: le Mercedes lucenti che gli ex trentenni guidano sono davvero troppo.

Maurizio Cabona – Il Giornale:

(…) All’inizio di Baciami ancora si accenna anche ad altri disagi. Quello di un amico disadattato, finito da spacciatore e per due anni galeotto (Giorgio Pasotti); e quello di un altro amico, non disonesto ma disturbato (Claudio Santamaria). Talora si parla anche di soldi, che però non sono mai il vero problema. E questo isola Baciami ancora dalla realtà. Fra tanto domandarsi: «Da quanto non scopi?», nessuno chiede: «Da quanto non lavori?». Le domande da coppia inibiscono le domande da famiglia. Muccino racconta bene, ma riracconta se stesso, mentre potrebbe raccontare gli altri. Peccato: sa farlo benissimo.

Valerio Caprara – Il Mattino:

Come nel caso di «Avatar», il critico si rallegra quando il pubblico accorre. Nulla da eccepire pertanto al cospetto del prevedibile successo di «Baciami ancora», in cui Gabriele Muccino ripresenta a dieci anni di distanza i personaggi che fecero la fortuna di «L’ultimo bacio»: anche se potrebbe sembrare una premessa ipocrita, pensiamo davvero che il regista al rientro in patria dopo la parentesi Usa disponga di un talento di narratore superiore alla media. La nuova commedia che cerca ancora una volta di distinguersi col suo mix di romanticismo, cinismo ed esistenzialismo non ci sembra, però, riuscita sia sul piano dell’intrattenimento puro che su quello dell’aggiornamento generazionale: lasciando da parte i dubbi sulla «verità» dei quarantenni in crisi (è ovvio che la tipologia sia prelevata da una porzione di realtà contemporanea, soprattutto quella del ceto medio-alto romano), il film appare ridondante nei suoi 140 minuti spalmati a grandi pennellate sullo schermo, troppo sentenzioso e spesso affettato nei dialoghi, accelerato e strattonato nel ritmo per supplire ai difetti di sceneggiatura nonché affidato a un plotoncino di attori solo in parte all’altezza del compito. Eccoli i nostri antieroi, che a trent’anni erano in crisi e a quaranta girano su se stessi per recuperare ciò che in amore, in lavoro, in società avevano dissipato: dall’ipocondriaco Carlo – interpretato dal sempre stridente Stefano Accorsi – e Giulia (Vittoria Puccini) al commediante Marco (Pierfrancesco Favino, tendenzialmente bravo ma qui tenuto in bilico tra pathos e ridicolo involontario) e Veronica (Daniela Piazza); dall’equivoco Adriano (Giorgio Pasotti) alla ricerca del figlio abbandonato alla ex moglie Livia (Sabrina Impacciatore) al fragile ma furioso Paolo (l’ottimo Claudio Santamaria) fino al patetico Alberto (Marco Cocci), che ancora crede al patto della fuga dal mondo allegramente tradito da tutti i compari. Muccino inanella scene madri su scene madri; fa correre i fatti restando emotivamente in surplace; cerca d’incidere sfondi super-eloquenti correndo il rischio della stucchevolezza pubblicitaria; affronta il minimalismo del quotidiano, ma poi si ritrova alle prese con temi (il dovere del compromesso o della riconciliazione; il balsamo della paternità) esorbitanti per quel formato. La chiave dello show di anime mucciniane più scomposte che disperate è, del resto, abbastanza chiaro: un temerario tentativo di scovare le corde dissonanti e sublimi della normalità come accade nelle canzoni di Jacques Brel, con il risultato di riconoscersi perfettamente nell’orecchiabile e ammiccante ballata del buon Jovanotti che ne funge da leitmotiv.

Paola Casella – Europa: Sarebbe facile trasformare Baciami ancora in una parodia: basterebbe girare un corto dove tutti ansimano e urlano, battendo pugni (e facce) nel muro, con un personaggio che guida in preda allo strum und drang esistenziale su prepotente musica d’archi e un altro che corre contro lo sfondo di una parete urbana al suono di una canzone francese. Uno spottone dove abbondino le scene isteriche e le lacrime accorate, e non manchi almeno un’inquadratura in cui il cast guarda incomprensibilmente verso l’alto o grida inutilmente verso l’infinito. Fondamentale è che quasi tutti i personaggi, pur appartenendo anagraficamente alla generazione mille euro, vivano in appartamenti di lusso e ricevano compensi opulenti. Il tutto dovrà essere girato non più in stile Mediaset (come L’ultimo bacio) ma in stile network Usa, secondo i canoni estetici e narrativi dei serial melodrammatici tipo Brothers and sisters che si crogiolano nelle crisi di coppia con sottofondo di compilation soft rock pronte per gli scaffali dei negozi di musica. Il top sarebbe ingaggiare come guest star Giovanni del trio Aldo, Giovanni e Giacomo con il suo trucco di scena ne Il cosmo sul comò, visto che è lui l’apparente ispirazione di Muccino per il look da tossico depresso di Giorgio Pasotti in Baciami ancora. Et voilà, avremmo una fedele instant parody cliccabilissima su Youtube. Ma sarebbe un gioco crudele e alla fine dei conti anche ingiusto, perché in Baciami ancora c’è abbastanza capacità di sintonizzarsi sulle tensioni e le speranze del presente da non poterlo liquidare come l’ennesima “muccinata”. La storia dei cinque bamboccioni (anche se dotati di casa e lavoro), passati da trentenni a quarantenni senza necessariamente diventare adulti, è ricca di talloni d’Achille, ma è anche colma di spunti viscerali, e alla fine quello che ti porti dietro dopo due ore e venti di corse sfiancanti e montaggi scalmanati (che però fanno passare in fretta il tempo), è il senso di una vitalità forse mal incanalata, ma in qualche modo incontenibile e perché no, qualche volta stimolante. E se Accorsi e Vittoria Puccini, che formano la coppia centrale (e di gran lunga la più trita, secondo gli standard italo-borghesi) restano al livello del film precedente, è una novità il personaggio di Pierfrancesco Favino, macho conservatore che dietro la facciata post-yuppie nasconde grandi fragilità ma anche la capacità di diventare quell’uomo nuovo che le donne del film, per fortuna un po’ emancipate rispetto alla consueta macchietta mucciniana dell’arpia zoccola, sperano di incontrare. Così se per la prima mezz’ora Baciami ancora è (ahimé) esattamente come te lo immagini, dato il passato mucciniano e dato L’ultimo bacio, via via che la storia avanza compaiono, quasi sfuggite al controllo del regista, colori e intuizioni che non ti aspetti e persino qualche momento di autenticità, spesso legato alla recitazione (Valeria Bruni Tedeschi, Adriano Giannini e Marco Cocci, che regala la sua schiettezza all’unico personaggio coerente del quintetto di protagonisti). Ci sarebbe piaciuto se Muccino avesse dato più spazio alla nota satirica, con evidenti progenitori nella commedia all’italiana, della performance di Favino, l’unico del gruppo (regista compreso) capace di mescolare senza soluzione di continuità pathos e ironia, grottesco e commovente, arroganza e umanità, senza per questo diventare una sterile macchietta o un clichè da pubblicità televisiva. Quella che si respira, al di là dei meriti artistici del film, è una sintonia elementare con la voglia di ottimismo di un paese, e una generazione, che non ce la fanno più a trattenere il fiato (sarà per questo che nel film ansimano tutti?) e che non vedono l’ora di sbucare dall’altra parte del tunnel. E se mancano la profondità filosofica e la capacità di critica sociale del grande cinema italiano, resta però il tentativo, non inutile, di far vibrare alcune corde della contemporaneità che ci appartengono, che ci piaccia o no.

Mariuccia Ciotta – Il Manifesto:

Apparato sentimentale arcaico da playstation, fotoromanzo anni Cinquanta dinamizzato sul ritmo delle soap-opera, tagli e cuci sulle coppie che intrecciano il loro «senso della vita» in un affresco generazionale. Nove anni dopo il L’ultimo bacio, Gabriele Muccino, tornato dall’esperienza americana, capita nella profonda notte italiana, nella dimensione produttiva dei lucchetti d’amore, che gli avrà fatto l’effetto di un back to the future, preistoria di fronte alla dinamica dei sessi made in Usa. I tormenti del giovane padre Will Smith di La ricerca della felicità (2006) parlava sì di famiglia, incerto rifugio emozionale, ma in Baciami ancora siamo a casa del grottesco popolato da una serie di inqualificabili quarantenni, per fortuna ancora immaturi (difetto segnalato dalla maggioranza dei critici) di cui temiamo l’evoluzione nel prossimo capitolo della serie (annunciata) dedicata ai cinquantenni. Muccino ha scritto la sceneggiatura, che ha spinto alla fuga Giovanna Mezzogiorno a servizio della banda di trentenni di una volta, riuniti intorno alla «sindrome di Peter Pan». Magari ce l’avessero ancora. Il «ragazzo che sa volare» aveva un progetto eversivo, una famiglia fatta di «bambini perduti», antidoto alla domestica gabbia anti-affettiva, perimetro di cinismo regolato dall’ordine della madre. Non si sono mai viste tante donne chiamate a interpretare la parte di feroci sentinelle dell’egoismo, odiose assassine dell’«amore libero», istitutrici del buon senso. L’allegra comitiva dei maschi scalpitanti, indecisi se darsi all’avventura, passar di fiore in fiore, o tornare da moglie e figli, è il risultato di un post-femminismo d’epoca, vissuto come perdita di identità virile. Eravamo sicuri che alla perdita fosse seguita da tempo la gioia del transgender, invece eccoci alle prese con Carlo (Stefano Accorsi), Marco (Pierfrancesco Favino), Paolo (Claudio Santamaria), Adriano (Giorgio Pasotti), Alberto (Marco Cocci), marziani di cui non capiamo il linguaggio. Né le parole né le forme espressive, a partire dalla imbarazzante messa in scena, il montaggio, le luci, le segnaletiche. Le pance, monito ai mariti, le croci disseminate dappertutto (a sostegno del ricorso italiano contro la comunità europea che non le vuole nei luoghi pubblici?) i figlioletti vendicativi che rifiutano il padre perché fu latitante beat, le ex con il fucile in mano, che sbattono fuori dalla porta a ogni inquadratura i loro uomini perché non ancora «affidabili». Le bravissime attrici (Vittoria Puccini, Sabrina Impacciatore, Daniela Piazza, Francesca Valtorta, Valeria Bruni Tedeschi, Sara Girolami) faticano come gli attori (il top) a mettersi nei panni di questi stereotipi di un tempo, ormai caricature, fuori dalla commedia all’italiana del dopoguerra. Meraviglia che il Muccino di Come te nessuno mai (1999) sprizzante talento e leggerezza, sensibile indagatore di sentimenti adolescenziali, sia precipitato in una «normalità» da catalogo Ikea. Il fantastico Claudio Santamaria, nella parte del fuoriditesta impasticcato, viene inquadrato di spalle nel quadro di una finestra, sullo sfondo di una pioggia luccicante e apocalittica nell’atto di spararsi un colpo alla testa, compiacimento spettacolare, effetto da brivido. Perché deve essere questa la narrazione della «meglio gioventù»? Automi, macchiette, macchine anti-desideranti, che suscitano ilarità. Ma non è la forza impudica dei sentimenti a provocare le risate, è l’assenza di ogni sfumatura, dettaglio, imprevisto. Mai un detour. Ed è Carlo che nel film pronuncia il verdetto: «la mancanza di cura nelle cose più piccole provoca gli errori più grandi».

Roberta Ronconi – Liberazione:

(…) Come L’ultimo bacio non era il ritratto dei trentenni di allora (ma solo di quelli che vivono tra Prati e Flaminio, quartieri bene di Roma), questo Baciami ancora tradisce la pretesa di rappresentare i quarantenni e i loro ingorghi amorosi, secondo l’assunto che «la vita non ci dà sempre le cose che vogliamo. Ma l’importante è che ce le dia». Frase che non vuol dire nulla, infatti. La struttura drammaturgica si ripete, con lo stesso schema: una sorta di catalogo delle situazioni più comuni di relazione, da cui vengono scartate, per censo, quelle assai più scabrose, ma più realistiche, di mancanza di mezzi e di possibilità di scelta (il vero problema dei quarantenni di oggi). La vita dei personaggi, nella scrittura, rimane sfiorata a volo d’uccello, priva di profondità, tra facile melodramma e risvolti scontati. Baciami ancora non aggiunge e non toglie nulla allo spettatore, se non la possibilità di rivedere su grande schermo alcuni momenti della propria esperienza, senza approfondimenti. Sia detto senza giudizio. Tanto cinema è fatto solo di semplice esposizione, non rende merito alla settima arte ma, appunto, in alcuni casi non la infanga nemmeno. Muccino e i suoi sceneggiatori conoscono il mestiere, giocano un gioco facile a cui il grande pubblico può partecipare senza annoiarsi. Rimane comunque un punto di forza nel cinema del “Muccino da incasso”: il lavoro e la scelta degli attori. Sono loro, allora come oggi, a dare senso all’operazione. In questa seconda muccineide ci sono delle vere e proprie epifanie che valgono l’intera visione. Prima fra tutti, l’interpretazione di Sabrina Impacciatore, che sempre più (e qui in maniera eclatante) si rivela come la migliore attrice italiana in assoluto da diversi anni a questa parte. Bella, naturalissima, generosa, regala alla sua Livia (ex moglie di Adriano-Pasotti, abbandonata con il bambino appena nato) un’interpretazione da manuale, da David di Donatello, da ovazione in piedi. Se fossimo dei produttori cinematografici, punteremmo tutti i nostri soldi su di lei. Subito dietro, arriva il grande Pierfrancesco Favino. Uno che non avrà fatto l’Actors’ studio, ma che ci regala momenti da far invidia ai grandi della scuola di Strasberg. L’ultimo bacio insomma è un film a encefalogramma piatto. Vale la pena di vederlo però per questi sublimi momenti dell’arte della recitazione. Bravi anche gli altri (la terza nella nostra personale classifica è Vittoria Puccini, che ha preso il posto di Giovanna Mezzogiorno), il resto si dimentica facilmente. E comunque, se al cinema italiano serve ogni tanto fare incasso, meglio Muccino che altri.

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