Per chiudere in bellezza l’anno, lo scorso 29 dicembre Netflix ha rilasciato l’attesa quarta stagione di “Black Mirror”.
La serie in questi anni ha riscosso molto successo e ha visto alternarsi grandi nomi, sia alla regia che davanti alla macchina da presa. Qualità crescente e contenuti sempre più ansiogeni, la serie antologica infatti è una riflessione sul futuro che ci attende, a volte senza andare troppo lontano. Procedendo in maniera meno “binge” del solito, proponiamo qui di seguito le mini-recensioni dei singoli episodi di questa quarta stagione, qual è il vostro preferito?
USS Callister
⭐⭐⭐
Uno degli argomenti che permettono ampio spazio di manovra per una serie come “Black Mirror” sono senza alcun dubbio i videogame e l’avvento della realtà aumentata. Il virtuale permette di arrivare davvero ovunque, perfino nello spazio. Lo sa bene Toby Haynes, che ha deciso di dare vita a un episodio che parzialmente è una sorta di parodia di “Star Trek”. Un episodio che dura oltre un’ora, in cui il protagonista, Robert Daly (Jesse Plemons), è un sociopatico che sfoga la propria rabbia repressa nel videogioco che lui stesso ha creato e potenziato per le sue sessioni private. Una realtà alternativa in cui si trasforma completamente e che pone molti interrogativi sulle infinite possibilità del virtuale. Dei cloni digitali possono essere considerati degli esseri umani a tutti gli effetti e fino a che punto ci si può spingere? “USS Callister” è pieno zeppo di citazioni, quel pizzico di ironia che non guasta mai, e vanta un cast eccellente, che comprende anche Cristin Milioti e Jimmi Simpson. Ma non è un episodio che lascia a bocca aperta, nonostante offra diversi spunti di riflessione, come sempre. Tuttavia è costruito molto bene e non stride l’unione tra il sapore vintage della flotta spaziale e quello futuristico del gioco e dell’azienda in cui ogni giorno Daly reprime le sue frustrazioni, circondato da colleghi poco attenti alle sue esigenze. La prospettiva che tutto questo possa diventare reale è fortemente inquietante, ovvio.
Arkangel
⭐⭐⭐
Dal trailer già si era capito che sarebbe stato particolarmente angosciante. Diretto da Jodie Foster, “Arkangel” racconta la vita di una madre single insieme alla figlia, alla quale è stato installato un innovativo sistema di localizzazione. Che non si limita, però, a fornire informazioni sulla posizione geografica ma, tramite un tablet, permette alla madre di vedere in diretta ciò che vede la figlia, di conoscere il suo stato di salute e censurare tutto ciò che la può turbare. Marie (Rosemarie DeWitte), spaventata per aver smarrito la figlia per qualche ora, decide di ricorrere a questo sistema per non perderla più di vista ma ben presto la situazione degenera. La ragazza cresce sotto l’occhio attento di una madre particolarmente ossessiva, senza privacy e tutelata dai numerosi filtri che non le permettono di vedere la realtà così com’è. La madre scopre che evitando a Sara (Brenna Harding) di vedere anche il lato peggiore del mondo non permette alla ragazza di sfogare rabbia e frustrazione e decide così di liberarsi del suo tablet. Ma la tentazione di controllare ogni aspetto della ragazza è più forte. Questo episodio permette di riflettere su molteplici argomenti, a partire dal difficile ruolo del genitore. E dell’importanza che ogni figlio ha di vivere la propria privacy. Un genitore, infatti, non può pretendere di controllare ogni aspetto della vita della creatura che ha messo al mondo, almeno non quando ha raggiunto un certo livello di autonomia. È importante che ogni figlio viva le proprie esperienze, commetta i propri errori e sì, che sappia anche che il mondo non è perfetto e impari a stare attento. Il difficile compito di un genitore è quello di gestire la situazione con equilibrio: facile a dirsi, molto meno a farsi. Come sempre in “Black Mirror” tutto è portato all’estremo ma non è nemmeno improbabile che qualcosa del genere possa accadere nella realtà, anche se con sistemi diversi. Seppure in maniera più sottile, la Foster traccia un’altra argomentazione più sottile, che riguardagli adolescenti di oggi, sempre più esposti alla realtà più cruda. Tramite dispositivi e internet basta poco per guardare porno e video violenti all’interno di una scuola elementare: se il filtro di Arkangel è un eccesso, anche non averne affatto (almeno a una certa età) comporta una distorsione della realtà e una difficoltà nelle relazioni. L’influenza della pornografia sulla vita sessuale degli adolescenti è un argomento che è già stato discusso, i ragazzi sembrano non riuscire a distinguere la finzione dalla vita reale e in questo caso, la protagonista contribuisce ad “ovattare” la vita della figlia cercando di diminuire la tensione al minimo, persino quando c’è un cane incatenato ad abbaiare.
Crocodile
⭐️⭐️
Mia (Andrea Riseborough) è un architetto di successo che deve fare i conti con un passato ingombrante. Un passato che tornerà a bussare alla sua porta e che ha le sembianze di un vecchio compagno, impersonato da Andrew Gower. Il passato di Mia si mescola con le indagini di un’agente assicurativa su un incidente stradale. “Crocodile” si sviluppa come un vero e proprio thriller dal sapore nordico ma la tecnologia, sempre in primo piano in “Black Mirror”, viene quasi accantonata. Se non fosse per quel minuscolo dispositivo che rimette insieme i ricordi, anche quelli meno nitidi e al quale la verità non si può proprio nascondere. A farne le spese è la povera Shazia (Kiran Sonia Sawar) e non solo, l’episodio è improntato sulla pazzia crescente della protagonista, una bravissima e inquieta Andrea Riseborough. Rispetto ad altri episodi, tuttavia, “Crocodile” sembra andare un po’ fuori tema, poiché l’impatto della tecnologia è relativo e l’unica preoccupazione che può travolgere lo spettatore riguarda una sociopatica libera di circolare e completamente fuori controllo. Anche le reazioni di Mia risultano essere eccessive, un po’ come quelle nelle trame dei peggiori film horror; forzate, di quelle che “se solo avesse usato un po’ di più il cervello tutto si sarebbe concluso diversamente”. Senza troppi spargimenti di sangue. Almeno ci fossero stati i colpi di scena a tirare su questa sceneggiatura zoppicante.
Hang the dj
⭐️⭐️⭐️
“Hang the dj” è il ritornello di “Panic”, una canzone degli Smiths, che non sono esattamente ciò che fa venire in mente il futuro in chiave distopica. Questo episodio è incentrato su un possibile sviluppo delle cosiddette dating apps, come Tinder. Frank (Joe Cole) e Amy (Georgina Campbell) sono appena entrati a far parte del programma, claustrofobico fin dall’inizio. Un coach virtuale, infatti, segue passo per passo ogni individuo nel corso della sua vita sentimentale, fatta di numerosi appuntamenti, di diversa durata, fino a trovare l’altra metà della mela. Fa molto “The Lobster” ed è altrettanto inquietante, perché per innamorarsi non dovrebbero servire applicazioni. È in quella direzione che stiamo andando? I dispositivi ti diranno pure chi c’è a pochi chilometri da te e chi potresti incontrare in base ai tuoi gusti e le preferenze, ma tutto il resto – tu chiamale, se vuoi, emozioni – non dipende dal digitale. In un mondo in cui le persone sostengono di sentirsi sempre più distanti nonostante siano perennemente connesse, quelle di “Hang the dj” non è un’ipotesi del tutto assurda. L’episodio inizialmente sembra essere una sorta di critica al nuovo modo di rapportarsi quando si cerca un partner. In questa stagione di “Black Mirror” si affronta più volte il tema della trasposizione digitale dell’essere umano (o della sua anima?), in questo caso generata da un algoritmo per l’app. Il dilemma etico è dietro l’angolo: è giusto utilizzare versioni digitali di esseri umani effettivamente esistenti? E fino a che punto ci si può spingere? “Hang the dj” è forse l’episodio più leggero dell’intera stagione e sembra accennare anche a un lieto fine, i protagonisti infatti si incontrano nel mondo reale, i loro sguardi si incrociano, i due si sorridono. Non è “pensare moderno” ma forse è vero che se deve nascere qualcosa tra due persone, non sarà un’app a fare la differenza. Dopo quest’ondata di distopia ci piace pensare che sia davvero così.
Metalhead
⭐️⭐️
Se parliamo di distopia, un po’ di post-apocalittico ci vuole sempre. Non in stile Michael Bay, non ci sono robottoni spara-fuoco ma degli strani cani di metallo, peraltro cattivissimi. Non sappiamo bene cosa sia successo nel mondo, il paesaggio scozzese in bianco e nero è deserto, ci sono solo tre persone in giro, ma non è molto sicuro starsene là fuori. L’ansia c’è tutta e “Metalhead” dimostra ancora una volta il grande potenziale di una serie come “Black Mirror“, che può spaziare da un genere all’altro. Il problema di questo episodio, diretto da David Slade e non privo di rimandi cinematografici, è che nonostante l’ottima interpretazione di Maxine Peake, non c’è un succo vero e proprio. Le informazioni sono ridotte al limite, fin troppo. Non bastano per poter empatizzare con la protagonista, la situazione che la circonda è poco chiara, anche se sappiamo che sta cercando di mettersi in contatto con altre persone e che una di esse è in difficoltà o comunque ha bisogno di qualcosa che ha portato lei e gli altri a rischiare la vita. Sembra che le uniche “creature” in circolazione siano questi cani metallici che ricordano un po’ gli scarafaggi (quelli che sopravviverebbero anche a una catastrofe nucleare) e che lanciano dei piccoli localizzatori molto dolorosi, ma a chi servono e perché? Va bene lasciare qualche dubbio e confondere lo spettatore, ma un po’ di sostanza in più non avrebbe guastato.
Black Museum
⭐️⭐️⭐️⭐️
Arrivando a conclusione di questa quarta stagione, Brooker per fortuna ci riserva un gran finale. Un episodio che cita altri vecchi episodi della serie – San Junipero in primis – e che vede protagonista Douglas Hodge nei panni del Dr. Rolo Haynes. Si tratta de titolare del Black Museum, un personaggio eccentrico per un luogo piuttosto inquietante nel bel mezzo del deserto americano; una sorta di museo del crimine che in realtà racchiude la storia professionale di Haynes. Una visitatrice (Letitia Wright) decide di scoprire cosa si nasconde tra le teche del museo ed emergono storie disturbanti, a tratti horror, sulle conseguenze che i progressi della scienza hanno avuto sulla vita umana e su quel che viene dopo. Anche in questo caso viene tirato in ballo il tema dell’anima in formato digitale e ci sono da affrontare questioni etiche non da poco. Una storia dietro l’altra, pronte a tenere lo spettatore incollato allo schermo. Un viaggio avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori dal museo, attraverso le parole di Rolo Haynes, che sbobina le sue storie come fossero racconti creepypasta o leggende dell’orrore da raccontare durante il falò di fine estate. “Black Museum” è senza alcun dubbio il migliore episodio della stagione, per sceneggiatura e interpretazioni. Storie che si intrecciano e dilemmi che si accumulano. La morte come argomento centrale (e già affrontato in passato), la possibilità di renderci immortali da sempre agognata dall’uomo ma che dopo la visione di questo episodio, va detto, risulta decisamente poco allettante.