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C’era una volta… a Hollywood: la recensione del nuovo film di Quentin Tarantino

I fatti di Cielo Drive accaduti nel 1969 ormai li conoscono tutti, soprattutto perché di Charles Manson, nell’ultimo anno, se ne è parlato parecchio.

La menzione più recente è forse quella in “Mindhunter“, dove viene tirato in ballo anche il famigerato massacro in cui perse la vita, tra gli altri, Sharon Tate, incinta di otto mesi. L’allora moglie di Roman Polanski è tra i protagonisti di “C’era una volta… a Hollywood“, impersonata da Margot Robbie, che ne incarna perfettamente la personalità un po’ naif e sognatrice. Cielo Drive si intreccia con la storia di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt), un attore in declino e il suo inseparabile stuntman. Quentin Tarantino racconta l’amicizia tra i due e la difficoltà di Dalton di riuscire a rimanere a galla in una Hollywood sempre più satura e in un mondo in cui i film western non vanno più per la maggiore. L’eroe di “Bounty Law” viene contattato da Marvin Schwarzs (Al Pacino), che gli fa capire chiaramente che l’unico modo per risollevare la sua carriera è prendere un volo per Roma e recitare in uno spaghetti western. In poche righe, in sostanza, ci sono tutte le più grandi passioni di Tarantino e “Once upon a time… in Hollywood“, di fatto, non è altro che una raccolta di attori-feticcio e citazioni.



Quando il citazionismo non basta

Sappiamo tutti molto bene che Quentin Tarantino ama in modo smisurato inserire una citazione dietro l’altra nei suoi film. Se in passato le citazioni si mescolavano perfettamente con la trama, nel caso di “C’era una volta… a Hollywood” non sembra esserci un legame molto solido. Ci sono i western, in versione USA e spaghetti, c’è un pizzico d’Italia, c’è la parodia di Bruce Lee, ci sono tantissimi piedi, diner, locandine, cinema in salsa vintage, c’è perfino l’attesa scena splatter, eppure alla fine del film si ha la sensazione di ritrovarsi con nulla di concreto in mano. Il cast, inutile dirlo, è impeccabile ma non è sufficiente a non lasciare la sensazione che tutto, in questo film, sia un po’ slegato, e che il nobile intento di restituire un happy ending laddove non c’è più nulla da fare, si perde in un mare di autocompiacimento e un collage di scene che rendono tutto una sorta di album di un fervente appassionato, più che un film vero e proprio.

Non c’è, inoltre, un’evoluzione dei personaggi: Rick Dalton rimane in crisi per tutto il film, Cliff continua a coprirgli le spalle, Sharon continua a sognare e si osserva nella sala di un cinema “per vedere l’effetto che fa”. E la Manson Family? C’è l’apparizione di Charles Manson (un incredibilmente somigliante Damon Herriman visto anche in “Mindhunter”) per qualche secondo e i fricchettoni dello Spanh Ranch, ricostruito in maniera impressionante, tra i quali spiccano Pussycat (Margaret Qualley) e un’irriconoscibile Dakota Fanning nei panni di Lynette “Squeaky” Fromme. Non c’è Uma Thurman ma un piccolo ruolo è stato ritagliato alla figlia, la star in ascesa Maya Hawke (apprezzatissima nell’ultima stagione di “Stranger Things”), nei panni di Linda Kasabian – figura chiave nella serie di omicidi della family. Il lavoro risulta sempre maniacale, accompagnato dall’immancabile colonna sonora “stile Tarantino” che si compone addirittura di 31 brani. Nonostante ci siano tutti gli elementi ricorrenti (e gli attori ricorrenti) di un film di Quentin Tarantino (incluse le sigarette Red Apple e il cibo per cani Wolf’s Tooth inventato per l’occasione), ogni cosa sembra essere slegata e il prodotto finale appare più che altro una lunga, lunghissima, serie di gag, e il momento pulp tanto atteso dal pubblico è portato all’eccesso – perfino per gli standard di Tarantino. La parte finale risulta, tuttavia, la più godibile, almeno per chi è andato in sala aspettandosi gradi momenti di azione. Risulta incomprensibile, invece, la standing ovation di sette minuti a Cannes.

Voto: ⭐⭐⭐


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