Per me, la sceneggiatura non è nulla. (Suzanne Schiffman)
Truffaut la chiamava la Schiff. E per lui, per il quarto di secolo di una carriera prematuramente interrotta, l’energica Suzanne rappresentò un punto di riferimento imprescindibile. Eppure, su Suzanne Schiffman, Klochendler all’anagrafe (Schiffman era il cognome del marito, il pittore americano Philip), candidata all’Oscar, insieme a Jean-Louis Richard e allo stesso Truffaut, per la sceneggiatura de La nuit américaine (Effetto notte, 1973), accaparratosi la statuetta come miglior film straniero, e vincitrice del César per il copione Le dernier métro (L’ultimo metrò, ’80), su di un’artista che al cinema d’autore votò un’intera esistenza, oggi, in Italia, non esiste uno straccio di monografia o uno scritto degno di nota. Qualche stringata biografia on line dal sapore di anamnesi clinica è tutto ciò di cui dispone chi intenda accostarne la figura. Meritorio, pertanto, l’onere che la studiosa Gabrielle Lucantonio si assunse nell’intervistare Schiffman a Parigi nel ‘96. Intervista poi confluita nel volume La “politique des auteurs”. Testi, documenti, interviste (Dino Audino, ’99), oggi datato, ma utile, per ricostruire una stagione creativa destinata a mutare la fisionomia del cinema francese (e mondiale).
Nata a Parigi nel ’29, laureata alla Sorbona in Storia dell’Arte, la giovane Suzanne, mascolina nell’aspetto e determinata nel carattere, è nei cineclub e alla Cinématèque française, divorando pellicole a migliaia, che riceve la sua formazione. Ed è qui che conosce, nel Dopoguerra, i registi che daranno corso alla Nouvelle Vague. Nel ’59 sarà dialoghista di Paris nous appartient, di Jacques Rivette, con il quale, un ventennio più tardi, sceneggerà molto altro. Sarà segretaria di edizione in quattro film di Jean-Luc Godard, a partire da Le petit soldat, girato nel ’60, anche se uscito successivamente. Negli anni ’80, il salto, e l’esordio registico, con Le moine et la sorcière (’87), una pellicola d’ambientazione medievale che riceverà una nomination al César come migliore opera prima (non male, per un’autrice alla soglia dei sessanta!), seguito dal tv-movie Femme de papier (’89), in cui dirige Jean-Pierre Léaud, l’attore simbolo della Nouvelle Vague.
È con François Truffaut, tuttavia, che Schiffman espresse il meglio di se stessa, con quel ragazzo selvaggio a cui l’accomunavano inclinazioni estetiche e i postumi di un rapporto tempestoso con la famiglia d’origine. Segretaria di edizione da Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, ’60) e per tutti gli anni ’60, aiuto-regista in Farenheit 451 (’66), si impone, da subito, sui set truffautiani, come fida collaboratrice, ma soprattutto come consigliera e spalla creativa. Truffaut la omaggerà ispirando a lei il personaggio della script girl Joëlle (Natalie Baye) nella Nuit, e proprio da Effetto notte in avanti, lungo tutti i capolavori della maturità, la coinvolgerà attivamente nel lavoro di sceneggiatura, senza per questo “sollevarla” dalle incombenze d’aiuto-regista. Insieme scriveranno alcuni tra i film più belli nella storia del cinema francese ed ecumenico; eppure, riservata e umile, la Schiff non saprà opporsi (ma lo desiderava?) alla caligine d’indifferenza e d’oblio che, fino alla fine, avvolgeranno la sua figura, se è vero che, il 9 giugno 2001, a pochi giorni dalla sua morte per cancro, La Stampa comunicherà in un imbarazzante trafiletto la scomparsa della “scenografa di Truffaut”. Non che Oltralpe la situazione migliori di netto: nella stessa data Le Monde le dedicò un articolo di 368 parole ( poche!).
Sembra proprio che Schiffman abbia preso alla lettera quell’asserzione del primato della mise en scène sul copione ruggita, tempi che furono, dal circolo dei Cahiers. Aspetto, in realtà, banalizzato, al punto che le parole affidate da Suzanne a Lucantanio e citate in epigrafe possono essere equivocate, se prive di un commento adeguato, che ci viene dalla sceneggiatrice stessa nel prosieguo dell’intervista. Lo script è “soltanto ciò che permette alla maggior parte dei registi di fare dei film”. La repulsione di quei cineasti, infatti, non era per il copione in sé, ma per le gabbie letterarie che intrappolavano il “cinema di papà”, imponendo la loro grammatica all’idioma cinematografico.
Ciò che, ora, sarebbe appetitoso indagare, per chi disponga di più righe, e mezzi, di me, è il contributo poetico offerto da Schiffman ai copioni a cui partecipò. Se è ormai assodato che nell’Ultimo metrò immise dettagli autobiografici sulla Parigi occupata, che lei patì doppiamente in quanto ebrea (la madre morì in un campo di sterminio), quale apporto le può essere effettivamente ascritto in certe trovate in odore di genialità del tardo Truffaut? Una su tutte, il personaggio che si fa narratore intradiegetico, come Geneviève nel magnifico L’homme qui aimait les femmes (L’uomo che amava le donne, ’77) o Madame Jouve ne La femme d’à côté (La signora della porta accanto, ’81), che, oltre a introdurci alla storia, veicola, con il divertissement sui piani di ripresa, una riflessione metalinguistica sulle facoltà ingannatorie dell’immagine. Al funerale di Suzanne risuonavano le musiche di George Delerue, sinfonia di un legame che neanche la morte è riuscita a recidere. Suzanne: la donna che non si è mai “posta problemi sulla forma della sceneggiatura”, perché per lei, la sceneggiatura non era nulla.
Dario Gigante