Dopo Naissance des pieuvres (Water Lilies) e Tomboy — vincitore del Teddy Award al Festival di Berlino —, Céline Sciamma ha presentato alla sessantasettesima edizione del festival di Cannes nella categoria Quinzaine des Réalisateurs, il suo terzo lungometraggio, Diamente Nero, da subito osannato dalla critica di tutto il mondo, ottenendo quattro candidature ai César e arrivando finalista al Premio Lux del Parlamento Europeo.
Se la traduzione italiana dell’originale Bande de Filles in Diamante nero suscita qualche perplessità, lo stesso si può dire per la versione anglofona: Girlhood, scelta che invita a un confronto immediato — ma non del tutto giustificato — con Boyhood.
Tanto l’opera di Linklater quanto quella della Sciamma sono, per stile narrativo e contenuto, specchio della fascia d’età di cui parlano fin dal titolo — la giovinezza per l’universo maschile e femminile — ma, mentre il regista statunitense racconta una storia abbastanza tipica di crescita e passaggio dall’infanzia all’adolescenza, lo stesso non si può dire per lo spaccato di vita che la sceneggiatrice e film director parigina propone.
La macchina da presa della Sciamma, senza mai esporsi in virtuosismi registici o particolari tecnicismi, riprende con crudezza e serietà Marieme (Karidja Touré), sedicenne di colore che vive con la famiglia — una madre assente, un fratello maggiore violento e due sorelle minori da accudire — nella periferia parigina, in un ambiente che ricorda molto i ghetti de L’Odio o de La Schivata.
Emarginata a scuola, oppressa da una situazione famigliare pesante e senza prospettive future soddisfacenti, prova di ambizioni o desideri da realizzate, la giovane si affida alla compagnia di tre coetanee che ai suoi occhi tristi e stanchi appaiono come delle “vincenti”.
Il film, apparentemente semplice nel suo taglio quasi documentaristico, pare ritrarre il tentativo della ragazza di cercare una propria identità nel gruppo sociale e nella tribù. Presente fin dalla primissima scena nella forma di una squadra di football, il gruppo, con le sue regole e i suoi totem, cambierà poi divenendo la famiglia, la compagnia di amiche, fino ad approdare nei tristi esiti dei giri di spaccio di stupefacenti.
La ricerca dell’altro e lo spasmodico bisogno che la giovane nutre di conferma e accettazione, riconoscimento e approvazione, annichilisce qualunque tentativo di resistenza personale, convogliando l’idea che le giovani generazioni siano incapaci di esistere individualmente, ma solo all’interno di un contesto plurale.
Parallelamente, quale marchio di fabbrica della particolarissima filmografia della regista, Marieme esplora i confini della propri personalità cercando di aderire ai modelli della cultura popolare —capelli rigorosamente stirati, vestiti aderenti, fisico filiforme— senza però conformarsi appieno agli usi e costumi propri dell’identità sessuale maschile o femminile: in questo senso la giovane cerca una propria armonia indipendentemente dai modelli comportamentali tipici del gentil sesso.
Le performances recitative delle protagoniste sono sensazionali, specie considerando che per l’attrice principale si è trattato della prima esperienza attoriale, e che le altre sono state scelte nel corso di un casting durato quattro mesi, durante i quali la Sciamma ha incontrato e conosciuto molte giovani che si misurano quotidianamente con la quotidianità che Marieme racconta nel film.
Non da ultimo Diamante nero ha il grande pregio di limitarsi ad accennare alcuni temi socialmente caldi — come il lavoro minorile o l’abbandono scolastico — senza cadere nel melenso, ma suggerendone con delicatezza una possibile declinazione.
Nella sua semplicità narrativa e stilistica —dono raro considerando i virtuosismi che sviliscono gran parte dell’ultima produzione cinematografica—, Céline Sciamma ha donato una vicenda cristallina, della purezza di un diamante. Una vera gioia per gli occhi.