“La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”. L’affermazione – dura – di Amnesty International si riferisce ai fatti della Scuola Diaz di Genova, nella notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001, quando il plesso scolastico fu teatro di un sanguinoso e violento raid effettuato dalle forze dell’ordine con lo scopo di individuare e porre in stato di arresto i famigerati black bloc. Più di quattrocento tra Polizia e Carabinieri, in una convulsa macedonia, forzarono il cancello principale della scuola e fecero irruzione in tenuta da guerra picchiando selvaggiamente ogni occupante dell’edificio (non facendosi mancare donne e anziani) per poi perpetrare il loro vile attacco anche nella caserma-prigione di Bolzaneto, trasformata in un lager.
Due lustri dopo il coraggioso Daniele Vicari (“Il passato è una terra straniera”) ci propone una versione realistica dei fatti di quel giorno nel film “Diaz – Don’t clean up this blood” con un cast importante (anche se il film brilla di luce propria non appoggiandosi sui “classici” attori protagonisti) che va dai poliziotti Claudio Santamaria (dal modo di agire possiamo dedurre possa essere , nonostante il nome fittizio, Michelangelo Fournier), Paolo Calabresi e Alessandro Roja, al giornalista della Gazzetta di Bologna interpretato da Elio Germano (ispirato, il suo personaggio, a quello di Lorenzo Guadagnucci del Resto del Carlino). Commovente l’apporto di Jennifer Ulrich (“L’onda”), nei panni di Alma una anarchica tedesca e collaboratrice del Genoa Social Forum.
Il film
La pellicola ripercorre gli eventi di quel maledetto 21 luglio, quando il ricordo di Carlo Giuliani è ancora vivo, quando la città di Genova si lecca le ferite, nauseata e bombardata dalle immagini violente del G8, dai cortei – non tutti pacifisti -, dall’odore acre dei lacrimogeni, dagli anarchici, dai ragazzi dei centri sociali, dai poliziotti in tenuta antisommossa, mentre la cornice marina lascia spazio al tappeto di vetri infranti, macchine rovesciate e cassonetti dati alle fiamme. Una guerriglia che volge al termine ma che deve ancora conoscere il suo lato più drammatico e proprio su questo punta il dito – con fermezza – Vicari, realizzando un film crudo e mostrandocelo sotto diversi punti di vista, avvisandoci del cambio di prospettiva grazie all’ossessionante e ripetuto infrangersi di una bottiglia sul marciapiede. C’è Max, un vicequestore aggiunto alla questura di Genova, c’è Alma una anarchica tedesca, ci sono i ragazzi del Genoa Social Forum, ci sono poliziotti esausti a caccia di vendetta, c’è il vecchio Anselmo, militante della Cgil, e c’è Luca, un giornalista della Gazzetta di Bologna (presentato come un giornale di destra). Si incontreranno tutti in quella maledetta notte alla scuola Diaz dove dalle 22 del 21 luglio si consumò una delle più discusse – e antidemocratiche – operazioni di polizia che la storia ricordi. Una operazione di “macelleria messicana”.
Giudizio sul film
Se ne sentiva veramente il bisogno: far conoscere, attraverso il cinema, quello che è successo (ed è tutto vero, ripreso dagli atti del processo) nella Diaz, appare come un gesto necessario, dovuto, giusto. Avvalendosi di brevissimi fotogrammi di repertorio (vedi l’assalto all’ingresso principale della scuola), il film di Vicari dedica una buona prima parte alla presentazione dei personaggi, lasciandoci intuire le loro motivazioni, spiegandoci il perché della loro presenza nel capoluogo ligure. Ed è proprio così che comincia a far male allo spettatore disegnando black bloc scatenati in gruppo ma dal coraggio latente “rifugiatii” in un umile baretto o in viaggio verso lidi migliori. Spettatori passivi del massacro ma attori protagonisti degli eventi che lo hanno in qualche modo giustificato. Martellando con una incessante colonna sonora, il film raggiunge un ideale climax nell’irruzione al “manufatto che ospita anarco-insurrezionalisti” (come viene definito nel film), dove si consuma una caccia all’uomo con punte di sadismo allo stato puro (vedi un uomo completamente ricoperto dal getto di un estintore che giace esanime a mo’ di statua). Sono immagini che colpiscono quelle della Diaz, ma necessarie. Il raid viene mostrato sapientemente dagli occhi degli ospiti della struttura e da quello degli uomini delle forze dell’ordine: da una parte urla, terrore, sgomento, dal’altra vendetta, esaltazione, totale mancanza di controllo. Il tutto scandito dalle luci bluastre dei lampeggianti che sembrano voler nascondere i visi colpevoli delle forze dell’ordine. “Apparentemente” pentiti visto che è probabilmente nella caserma di Bolzaneto che Vicari scopre definitivamente le carte riempiendo gli occhi degli spettatori con le assurde violazioni dei diritti umani a cui sono stati sottoposti gli arrestati con la grave co-responsabilità di medici e infermieri: dalle minacce a sfondo sessuale con i manganelli, all’assurdo ed umiliante girotondo di gracili e ferite ragazze a corpo nudo, mentre – per tutti – l’obbligo di restare in piedi con il viso rivolto al muro. Come una punizione per un bambino maleducato ma che ricorda tanto una comune pratica nazista. “Diaz” non è un film contro la polizia, ma denuncia colpendolo a suon di uno-due quel sistema dormiente e consenziente mettendo al tappeto lo stato che in modo grottesco ha cercato di coprire il possibile, non riuscendo però a “pulire” quelle – indelebili – macchie di sangue.
Commenti finali
Diecimila comparse, più di cento attori, oltre duecento uomini della troupe: sono questi i numeri di Diaz – Don’t clean up this blood, una produzione italo-franco-rumena, coraggiosa e ben diretta. Il ritmo del film, volutamente alto, non permette distrazioni, ogni gesto va seguito con estrema attenzione, le prolessi e le analessi sono funzionali allo spettacolo. Se così possiamo definirlo. Le riprese dall’alto, le soggettive al buio nella scuola, il pestaggio dall’alto verso il basso, sono dimostrazione di una assoluta padronanza del linguaggio cinematografico.
Un film da non perdere
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