L’assalto alla scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001 è una delle tante vicende oscure del recente passato del nostro paese. Raramente negli ultimi anni il cinema italiano ha provato ad interrogare il presente, a raccontare la contemporaneità e le sue zone oscure e inesplorate. Casi eccezionali sono stati quelli di “Gomorra” di Matteo Garrone (che comunque poteva contare sul solido apporto di un fenomeno sociale e culturale come l’omonimo libro di Roberto Saviano) e de “Il Divo” di Paolo Sorrentino. Da ricordare anche Giorgio Diritti con il suo “L’uomo che verrà” (che racconta gli eventi antecedenti alla strage di Marzabotto visti attraverso gli occhi di una bambina di otto anni) e Andrea Molaioli con “Il gioiellino” (biografia non autorizzata dello scandalo Parmalat). Un tentativo di riaffermazione di un cinema sociale, politicamente e culturalmente impegnato potrebbe essere rappresentato dal nuovo film di Daniele Vicari, appunto “Diaz”. Il regista laziale, già apprezzato documentarista e autore di “Il passato è una terra straniera” e “Velocità massima” ha deciso di accettare una sfida molto importante e difficile, considerato come in Italia chi tocca certi fili scoperti rischi inevitabilmente di prendere sonore e indimenticabili scosse. Vicari denuncia dalla pagine dell’Espresso una sorta di mobbing preventivo nei confronti del suo film. Un prodotto ancora in fase embrionale, eppure già inesorabilmente scomodo, ostracizzato e ostacolato nei modi più subdoli e meschini, anche da fonti insospettabili. In una lunga lettera pubblicata dal settimanale di Via Cristoforo Colombo, Vicari parla delle difficoltà realizzative di questo progetto che, come avrebbe detto Manzoni, non s’ha da fare. Né ora, né (chissà) mai. Queste le parole di Vicari:
Roma, quartiere Portonaccio. Sono in uno studio cinematografico per preparare “Diaz” e non avendo uno spazio per le prove con gli attori mi rivolgo al centro sociale Zona Rischio a pochi metri di distanza. Risposta: “Leggiamo in un comunicato del Comitato verità e giustizia che Fandango per produrre il film collabora con la Polizia, non siamo disponibili”. Resto senza fiato. Chiedo un colloquio con gli occupanti, vorrei capire fino in fondo. Accettano. A Cannes Domenico Procacci ha annunciato il via alle riprese, e ha aggiunto di non voler fare il film pregiudizialmente contro la Polizia, ma di aver chiesto un incontro con il prefetto Manganelli. Il Comitato verità e giustizia, con un automatismo stupefacente, ha emesso un comunicato durissimo accusandolo di aver fatto “analizzare” la sceneggiatura a Manganelli ma non a loro. I ragazzi del centro sociale sono ospitali e mi fanno molte domande. Non ho mai voluto parlare in pubblico del film perché sono troppo coinvolto, è un film difficile, e non voglio inutili discussioni. Ho incontrato tante persone travolte dalla vicenda, fortemente segnate. Il primo colloquio con Lorenzo Guadagnucci, uno dei firmatari del comunicato, mi ha convinto ad approfondire la ricerca. Lorenzo è una figura pubblica, ha scritto libri e articoli sulla Diaz. Avevo bisogno di parlare con chi ha taciuto. Così ho incontrato decine di persone presenti nella scuola, i loro avvocati, magistrati, giornalisti e anche poliziotti, seguendo uno schema di lavoro personale che ha portato me e Laura Paolucci a scrivere un film complesso. Perché non ho incontrato ufficialmente il Comitato? Perché ho preferito parlare con le persone singolarmente, anche quelle meno considerate: i tedeschi e i francesi, per esempio. Questo è il mio lavoro e serve per fare un film non un processo contro o a favore di qualcuno. Ma cosa racconterò? Non vicende private, farò un film corale con 140 personaggi ispirati alla realtà ma con nomi di fantasia. Perché Procacci parla con la Polizia? Perché è un produttore, e chiunque in Italia (in Europa) faccia film raccontando Polizie o Forze Armate, per avere mezzi, divise o solo autorizzazioni deve farlo. Comunque fino ad oggi non c’è stata risposta: nessun incontro con Manganelli, nessuna collaborazione di alcun tipo e ormai è tardi, ci siamo organizzati. Procacci inoltre è un uomo libero e può permettersi di parlare con chi vuole, lasciando la sua libertà immutata. E anch’io, fino a prova contraria. Il problema è che “Diaz” è un film che in Italia nessuno vuole: nessun distributore, nessuna televisione, nessun finanziatore, nemmeno le banche e, ironia della sorte, ora anche il Comitato di verità e giustizia non è sicuro di volerlo. La cosa mi intristisce, ma credo faccia parte del prezzo che nel nostro Paese si paga sempre per la propria indipendenza di giudizio. L’entusiasmo e l’ammirazione che il progetto suscita fuori dall’Italia mi conforta non poco. I ragazzi di Zona Rischio sono impegnati nelle lotte per l’acqua pubblica, alcuni fanno teatro e sono stati a Genova nel 2001 e su quel G8 hanno messo in scena spettacoli. I loro testi li condividono con il movimento? No! Mi chiedono se ho ancora bisogno dello spazio. Peccato, non più. Ci lasciamo con la voglia di tornarci su ma uno di loro mi fa una domanda: “Che si può fare per eliminare certe distorsioni? Per uscire dalle secche di certe discussioni intestine?”. La domanda apre un baratro nella mia coscienza, non riguarda solo i centri sociali, riguarda l’intero Paese. L’unica cosa seria che mi viene è questa: essere spietati anche con noi stessi, non solo con gli altri. E poi mettersi in gioco davvero. Ma io sono un regista, e il mio compito è fare un buon film, evitando l’impasse in cui si può cadere quando si affrontano temi controversi: mediando per motivi produttivi con tutte le parrocchie, si finisce per non convincere nessuno, men che meno gli spettatori. Non è facile essere all’altezza del compito, ma vorrei almeno provarci.
Fonte: L’Espresso