Dopo essere uscito nelle sale cinematografiche a fine novembre, “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino è disponibile su Netflix. Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia, il film è un racconto in (gran) parte autobiografico dell’adolescenza del regista. Siamo nella Napoli negli anni Ottanta, si è appena sparsa la voce dell’imminente arrivo di Maradona: il film segue le vicende familiari di Fabio Schisa (Filippo Scotti), detto Fabietto, attraverso il racconto di una famiglia che vive alti e bassi come tutte le altre, accompagnata da un contorno numeroso e colorito. Fabietto, tuttavia, è un ragazzo solitario e malinconico che deve fare troppo presto i conti con il dolore più grande, quello della perdita dei genitori. Paolo Sorrentino ha perso i genitori all’età di 16 anni e a salvarlo, racconta, fu proprio una partita del Napoli. Dopo aver insistito per molto tempo per poter seguire il suo idolo Diego Armando Maradona, il padre aveva accontentato la sua richiesta, concedendogli di seguirlo in trasferta per la partita contro l’Empoli anziché andare in vacanza a Roccaraso, nella casa di famiglia. I genitori morirono quel giorno, a causa di una stufa, avvelenati dal monossido di carbonio ma per lui “la mano di Dio” fu salvifica quanto lo fu per l’intera città di Napoli alla quale, dopo tanto tempo (artisticamente parlando) Sorrentino ha deciso di fare ritorno.
“È stata la mano di Dio” rappresenta l’elaborazione definitiva del lutto, o meglio, dell’esorcizzazione di un dolore talmente grande che non si può mai annullare del tutto. Rispetto ai suoi film precedenti, Paolo Sorrentino ci porta in una dimensione meno onirica, seppure basata su ricordi e racconti romanzati, carichi di malinconica nostalgia e idealizzazioni. Qui l’elaborazione del lutto viene trasformata in arte, per un ritratto autobiografico dal forte sapore teatrale: le ormai celebri pause del regista qui sono più brevi e alcuni elementi non sono del tutto inediti per chi ha letto anche i suoi libri. Continui e dovuti, dopo un lungo giro durato oltre vent’anni, sono gli omaggi alla città di Napoli e a Diego Armando Maradona, che qui rappresenta un simbolo di salvezza, di riscatto, per una città e per il suo popolo. Come in tutti i film di Sorrentino, realtà e fantasia sono costantemente rimescolate, al punto da non riuscire più a fare distinzioni. È, dopotutto, quanto accade Napoli, l’unico luogo dove qualcosa di simile si possa considerare veramente possibile.
Spaccato in due tra la commedia e il dramma, tra la spensieratezza e l’abisso, “È stato la mano di Dio” è una dichiarazione d’amore che Paolo Sorrentino racconta prendendo in prestito la commedia di De Filippo, avvalendosi di una scenografia maniacale che si trasforma in un racconto dentro al racconto e che svela ricordi, emozioni e risveglia vecchi sentimenti. Su tutti, spiccano un bravissimo Filippo Scotti e Teresa Saponangelo, il cast nel complesso funziona bene in tutta la sua teatralità, mentre suonano più forzati e meno riusciti alcuni passaggi di sceneggiatura, tra cui l’immancabile omaggio a Federico Fellini, stavolta più diretto del solito. Subentra un altro doveroso e sentito omaggio, quello al mentore Antonio Capuano (Ciro Capano), che sullo sfondo di una Napoli più onirica che mai, nella Piscina Mirabilis di Bacoli, invita Fabietto a non disunirsi, portandolo alla consapevolezza di dover finalmente crescere – anche se forse un po’ prima del previsto. Nonostante i personaggi coloriti, dalla folle zia Patrizia (una dea, Luisa Ranieri) agli eccessi della signora Gentile (Dora Romano), Fabio Schisa vive in un costante stato di malinconia e solitudine e si aggrappa al cinema per lasciarsi alle spalle la “realtà scadente” delle cose.
Se è vero che molto spesso l’arte si alimenta in funzione del dolore, non è scontato che il risultato finale sia soddisfacente. Nonostante qualche sbavatura e una santificazione di Maradona che tutti i non napoletani non potranno mai comprendere pienamente, Paolo Sorrentino qui tocca un altro livello. La maturità cinematografica era stata già raggiunta a suo tempo con “La grande bellezza” – e gli è valsa anche un Oscar: fino ad ora il regista non è più riuscito a raggiungere gli stessi livelli di poetica ed estetica ma chissà che questo film non sia il punto di partenza per ambire a superarli (ricordandosi di non disunirsi).
“È stato la mano di Dio” racchiude tutti gli elementi che fino ad oggi Paolo Sorrentino ha “sparso” in giro per la sua filmografia ed è qui che, finalmente, trovano la loro vera ragione d’esistere, è qui che vengono spiegati e rimessi a posto, il regista racconta il contesto e i fatti da cui è nata la sua intera estetica. Personaggi sopra le righe, da freak show, seppur limitati rispetto ai film precedenti, qui sono calati in una normalità sì teatrale ma che risulta leggermente più ordinaria rispetto alle stravaganze del passato, proprio perché siamo nella Napoli in cui tutto questo può accadere – e di fatto accade. Paolo Sorrentino affonda le mani nelle proprie radici, da cui quelle immagini oniriche hanno preso forma nel tempo diventando tratto distintivo del suo cinema, ormai riconosciuto a livello internazionale, alimentate dalla fantasia del loro autore. Ma lo spazio, qui, è riservato a un’altra storia, a un’operazione che sicuramente per Sorrentino risulterà l’impresa più viscerale e difficile di sempre, quella di mettere in scena il più grande dolore della sua vita, trasformandolo in bellezza, rivolgendo lo sguardo a un futuro – con la consapevolezza che un futuro è possibile anche dopo così tanto dolore – con la stessa timida curiosità che Fabietto ha mentre guarda fuori dal finestrino, ascoltando Pino Daniele e accogliendo la meraviglia pronta a manifestarsi davanti a suoi occhi.