Il racconto viene narrato in un tempo futuro, all’interno di un ufficio postale, in un giorno come tanti. È un signore trasandato di nome Busu (Alfredo Castro), ad introdurre la storia della famiglia Ciraulo, come le altre microstorie che di giorno in giorno racconta per uccidere il tempo che consuma la sua solitudine. C’è chi lo ascolta, c’è chi invece ad un certo punto si stanca e va via, lasciandolo solo in quella interminabile giornata d’inverno.
La famiglia Ciraulo è composta da sei persone: Nicola (Toni Servillo) è il capofamiglia, Loredana sua moglie, Tancredi è il figlio maggiore e Serenella la figlia più piccola. Nonno Fonzio e Nonna Rosa, i genitori di Nicola, vivono insieme a loro. Abitano nella periferia di Palermo. Nicola si arrabatta per mantenere tutti rivendendo il ferro vecchio delle navi in disarmo. Le loro vite anche in questa realtà molto dura, scorrono in una relativa serenità. Fino a quando, al ritorno da una gita al mare, insieme con i Giacalone, loro amici e vicini di casa, un proiettile vagante, destinato ad un regolamento di conti fra bande rivali, colpisce a morte la piccola Serenella.
La disperazione è incommensurabile. Ma si apre uno spiraglio di speranza per un cambiamento economico quando Giacalone suggerisce a Nicola di chiedere un risarcimento che lo Stato riconosce alle vittime della mafia. Il miraggio di ricevere un’ ingente somma di denaro spinge la famiglia a spendere i soldi prima di incassarli, indebitandosi con tutti, pensando che la liquidazione da parte dello Stato sia imminente.
“È stato il figlio” è il primo film di Daniele Ciprì dopo la dissoluzione del sodalizio artistico con Franco Maresco. Gli stilemi estetici sono gli stessi di “Cinico TV”, con un gusto per la caricatura, la deformazione grottesca e il parossismo caustico. A tutto ciò si aggiunge una costruzione narrativa piuttosto solida e insolita per il cinema italiano: un puzzle da costruire a ritroso, in cui tutti i pezzi vanno al loro posto e in cui ciascun personaggio ha determinati ruoli e funzioni.
Strizzando un occhio a Pietro Germi, nel racconto di una società meridionale arcaica e dalla discutibile morale, e un altro a Marco Ferreri, per la deformazione grottesca di corpi e la costruzione degli sketch fisici, Ciprì riesce a dare vita ad un’opera sorprendente e disperata, dove si riesce anche a ridere, malgrado la profonda drammaticità del sottotesto.
Un affresco da incubo di un’Italia volgare, amorale, interessata solo al guadagno facile e al tornaconto personale del singolo, dove il fine giustifica anche il più infimo dei mezzi.
Sempre in bilico tra farsa e tragedia, “È stato il figlio” rappresenta un’umanità senza scrupoli e arrivista, ma al tempo stesso ridicola e violenta nell’ostinata volontà di perseguire obiettivi e ambizioni abbastanza discutibile. La Mercedes che Nicola sogna di poter comprare con i soldi dello Stato non serve a nessuno, ma ha l’unica funzione di status symbol, di emancipazione sociale esclusivamente apparente.
Dalla forza visiva straordinaria (al limite del manierismo in alcuni passaggi), “È stato il figlio” riesce ad essere anche incisivo, mai banale o superficiale, nella sua analisi sociale di un’Italia rappresenta consapevolmente con una cattiveria e una lucidità inaspettate e assai potenti.
“È stato il figlio” è un film coraggioso, corrosivo e a tratti nichilista, refrattario a qualsiasi indulgenza nei confronti di una disumana umanità.
Paradossalmente il limite maggiore del film sembra venire da un Toni Servillo, ipercaricato perfino per un ruolo così sopra le righe. Ciò nonostante “È stato il figlio” rimane una delle più piacevoli sorprese della Mostra di Venezia 2012 e uno dei migliori film italiani dell’anno.
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