Presentato in concorso alla sessantacinquesima edizione del Festival di arte cinematografica di Berlino, Eisenstein in Messico (dall’originale Eisenstein in Guanajuato), diretto e sceneggiato da Peter Greenaway, è una difficile ed eclettica sperimentazione del linguaggio cinematografico in direzioni nuove e talvolta di difficile comprensione.
Nel 1931, al vertice della sua carriera registica Sergei Eisenstein, (Elmar Bäck nel suo primo ruolo da protagonista) in Messico per girare Que viva México, passa dieci giorni nella cittadina di Guanajuato, sebbene il regime stalinista, che non vede di buon occhio il suo soggiorno nel Nuovo Mondo, lo vorrebbe di ritorno quanto prima.
Forte del successo di Ottobre – conosciuto fuori dall’URSS come I dieci giorni che sconvolsero il mondo –, sotto la guida del sensuale Palomino Cañedo (Luis Alberti), Eisenstein scoprirà molti lati della sua personalità e sessualità che la rigida formalità della dittatura e della burocrazia russa non gli consentivano di indagare e rendere manifeste, sostenendo così una nuova rivoluzione: quella del suo corpo.
I dieci giorni che sconvolsero Eisenstein – tagline del film, citata all’inizio e alla fine della pellicola in un armonioso hortus conclusus – vengono proposti da Peter Greenaway con una tecnica filmica e una narrazione che lasceranno attoniti anche i più accaniti fra i cinefili.
Se la volontà era quella di omaggiare la molteplicità di inquadrature, la violenza dell’azione e l’uso della metafora e dell’analogia tipiche della filmografia di Eisenstein, certo non si può negare che Greenaway abbia colpito nel segno, tanto che la vicenda sembra quasi un pretesto per riuscire a sperimentare tecniche nuove e a presentare un’opera di “arte per l’arte”, una pellicola creata solo per il (dubbio) piacere degli occhi, assolutamente scevra di quel sotto-testo politico e propagandistico che caratterizza invece la produzione eisensteiniana.
Il regista inglese condensa in quest’opera le varie tappe della sua formazione artistica: dall’iniziale amore per la pittura e le arti visive – evidenti in una scenografia barocca, lussoriosa e libidinosa ai limiti del posticcio – agli excursus documentaristici e didascalici sulla vita di Sergei – in questo senso è interessante l’utilizzo di materiale fotografico autentico presentato in split screen –, per non parlare di sequenze velocissime e rapidi fermo-immagine che ricordano la cronofotogafia d’inizio secolo.
Se tutti questi elementi, connessi a un utilizzo della macchina vorticoso e a una manipolazione digitale della scena – marchio di fabbrica della fotografia del regista inglese –, portano alle estreme conseguenze l’estro visionario e sperimentalista di Greenaway, la recitazione di Bäck, istrionica ed esagerata, contribuisce a caratterizzare la figura di Eisenstein quale artista ridicolo e tracotante, fiero della propria intelligenza fino all’arroganza, dipingendolo come una sorta di clown tragico per certi versi simile all’irrispettoso ritratto che di Mozart si può trarre dall’Amadeus di Miloš Forman.
Un’opera controversa e audace, così nuova da lasciare quasi interdetti, destinata a dividere pubblico e critica e a far molto parlare.