C’è qualcosa dopo la vita? Un interrogativo anziano come l’umanità. La morte organica coincide con l’annegamento nel nulla? Il cinema, come tutte le espressioni più nobili dell’intelligenza artistica e creativa degli uomini, se lo è domandato a più riprese. Clint Eastwood gode di buona compagnia, così come la sua opera trentaduesima. Presentato in anteprima al Torino Film Festival, “Hereafter”, disdegnato dalla critica statunitense, apre, in Italia, il 2011 cinematografico. Un’affermata giornalista francese, Marie (Cécile de France), nel Sudest asiatico per un reportage, sopravvive alla violenza dello tsunami, ma mentre versa in stato d’incoscienza, saturi i polmoni di acqua marina, viene chiamata, da una visione, nell’aldilà; un ragazzino londinese, Markus (Frankie e George McLaren), è divorato dall’ossessione del gemello stroncato da un incidente; un operaio di San Francisco, George (Matt Damon), è condannato, dalla facoltà irrazionale di comunicare con i defunti, a un’esistenza tetra e solitaria, stritolata fra le pressanti richieste d’aiuto di parenti inconsolabili e l’ingordigia di un fratello che si adopera per monetizzare il “dono”. Tre vettori centripeti, tutti orientati, ciascuno a suo modo, verso un unico nucleo, dal desiderio di sciogliere un mistero estenuante. Tre vicende umane che convergeranno in un unico polo, dove i personaggi si incontreranno per avvinghiare, in un groviglio doloroso e catartico, le loro disperazioni.
Se l’opera di Dirty Clint può essere, sommariamente, bipartita in un complesso di pellicole usa e getta (inutili polizieschi da consumare in tv), tra le quali si annidano anche le prove peggiori, e, dall’altra parte, un cinema di concetto rispettabile con qualche sorprendente vetta di credibilità, “Hereafter” possiamo coscientemente ascriverlo a questa seconda categoria. E parlare, senza remore, di un film elegante, spalleggiati, in un giudizio simile, anche da una raffinatezza formale che non sempre si riscontra, nell’Eastwood più recente, e che culla l’occhio in un’alcova d’atmosfere ammalianti e rarefatte. Una fotografia cerulea, impregnata, viene facile pensare, dal colore di quel mare che, nelle sequenze iniziali, pervade lo schermo, ci concupisce morbidamente conducendoci nei fotogrammi di un film “azzurro” di grazia kieslowskiana, misurato e pudico anche laddove, in nome dei precetti massimalisti imperanti in molto cinema pseudo-autoriale contemporaneo (Nolan?), potrebbe concedersi scene madri irrorate di effettacci digitali (l’inondazione, le visioni dall’aldilà). Eleganza anche nel ritmo narrativo, commisurato al tempo della coscienza dei personaggi, e nella tassonomia drammarturgica dell’insieme, ordinato in un equilibrio convincente delle parti (e delle storie narrate) e forte di un’idea di sospensione che non infligge soluzioni forzate e concettose. Lungi dal volerci inoculare una risposta metafisica definitiva, ma anche dal risolvere il viluppo con una trovata alla Shyamalan, la sceneggiatura di Peter Morgan (“The Queen”, “I due presidenti”) ci accompagna lungo il tragitto spirituale dei tre protagonisti, rendendoci partecipi e soggetti autonomi della ricerca. E forse proprio su questo piano si evidenzia la triste carenza di un film riuscito solo in parte. Non infieriamo sull’incuria di certi dettagli (possibile che il 7 luglio, a Londra, tutti fossero abbigliati in tenuta invernale?) o sulla nota di folkore suonata dal cuoco italiano, e andiamo al sodo. Se sceneggiatore e regista riescono a restituirci tre storie di alienazione e di strazio, confidando anche nel temperamento ombroso di interpreti all’altezza (un plauso d’onore ai giovani McLaren, mentre sorvoliamo per pietà sul doppiaggio della de France), il contenuto esistenziale dell’opera sembra ridursi a questo soltanto, all’insegna di un’esplorazione del dolore che accarezza la superficie, il fenomeno, i volti annebbiati dei personaggi, senza spingersi oltre. Eastwood accantona le tinte plumbee del suo capolavoro “Million Dollar Baby” (o del fratello minore “Gran Torino”), ma rinuncia, in fondo, anche al respiro dell’ambizione autoriale con cui, in simili precedenti, si era interrogato (ed espresso) sul senso della vita nella sua indirimibile relazione con la morte. Marie, e George restano figure amputate, alle quali qualche opaca immagine del dopo non aiuta ad attribuire un significato all’adesso. All’esistenza.
Dario Gigante
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