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Hungry Hearts: la recensione

Hungry Hearts, presentato in concorso al Festival di Cannes 2014, dove ha vinto ben due Coppe Volpi per le interpretazioni di Adam Driver e Alba Rohrwacher, prende il via quando Mina, giovane e neurotica italiana e Jude, affabile newyorkese, si incontrano per la prima volta in un’angusta toilette di un ristorante cinese.

Da lì nasce una relazione che darà alla luce un bambino e li porterà al matrimonio. Dopo colloquio con una veggente Mina si convince che il suo sarà un bimbo speciale che andrà protetto da ogni impurità. Da questo momento la giovane, dimentica della propria femminilità e sessualità, vive in funzione del figlio, e, come una pianta d’edera su una parete, lo soffoca in un abbraccio troppo stretto. Inizia quindi a coltivare ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non lo fa uscire imponendo regole alimentari che ne impediscono la regolare crescita. In un primo momento il marito si mostra comprensivo e acquiescente nei confronti di queste “inusuali” scelte, fino a quando porta di nascosto il figlio da un medico che mette in evidenza la gravità della situazione. Mina però, cede solo apparentemente alle richieste del coniuge e il conflitto si fa sempre più acuto. Come suggerito forse troppo insistentemente dal tintinnio di suoni sempre più acuti, il rapporto di coppia si dirige lungo un sentiero oscuro, dove l’amore e la fiducia si ammalano della paura dell’altro l’altro. Mina inizia a diventare sempre più ossessivamente compulsiva per quanto riguarda l’alimentazione e la cura di suo figlio (da notare l’uso pleonastico del possessivo “mio” in riferimento al bambino), mentre Jude diviene ora certo che la salute del piccolo è in serio pericolo.

Costanzo, sublime alla regia, usa l’istinto materno come tramite per esplorare la natura paranoica di un genitore pericolosamente confuso, fanaticamente interessato a uno stile di vita sano e organico. Il film prosegue in una climax crescente di claustrofobia, terrore e angoscia (sicuramente debitrici del cinema di Polanski e Hitchcok), enfatizzati da un uso della macchina capace di esibirsi in molti trucchi visivi (ad esempio, c’è un intero interludio che si snoda attraverso una prospettiva fish-eye).

Come se non bastasse, la coppia, morsa nella stretta di un piccolo appartamento ermeticamente chiuso di New York e camere da letto delle dimensioni di un loculo, è spesso ripresa dall’alto o da scomode prospettive, aumentando nello spettatore il senso di impotenza e malessere. Gli attori sono inoltre letteralmente inghiottiti nello schermo, che spesso taglia loro parti del viso, quasi vivisezionandone le emozioni al microscopio. Anche se per la maggior parte abbastanza terrificanti e inquietanti, le scelte di Costanzo sono ciò che rende questo film un’esperienza unica.
Il disagio, il malessere esistenziale di cui questi “cuori affamati” si fanno portatori sono al contempo estremi e quotidiani, e, ancora più impressionanti se si considera il minimalismo che caratterizza la dinamica degli eventi: non c’è una grande varietà di colpi in ogni scena. Il regista blocca la telecamera sulla parete, spesso i protagonisti premono contro la lente, distorcendo i loro occhi e le narici (fantastica in questo senso la scelta di Adam Driver, la ci fisionomia è già caratterizzata da lineamenti assimetrici e taglienti).

Alba Rohrwacher - Hungry Hearts

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