Dopo Quando c’era Berlinguer, Walter Veltroni al suo secondo tentativo registico, con I bambini sanno, percorre di nuovo la strada del docu-film, spostandosi dal desolante panorama della politica di ieri e di oggi a quello, altrettanto desolante, del presente dell’infanzia in Italia.
Protagonisti dei 113 minuti di pellicola sono trentanove bambini tra gli otto e i tredici anni, di diversa estrazione e classe sociale, ciascuno ripreso nel piccolo guscio di cui è il re, ovvero la propria cameretta.
Nel tentativo di conferire all’opera un ritmo snello e fluido il regista divide le micro-interviste in alcuni capitoli, parlando di volta in volta di temi collettivi riguardanti trasversalmente ogni fascia d’età: l’amore e la sessualità, la famiglia, la crisi, dio e il futuro.
Dopo una prima, lunga –forse troppo lunga– e del tutto ingiustificata sequenza di bambini celebri della storia del cinema – I quattrocento colpi, Billy Elliot, Stand by me, Ricordo di una notte d’estate– la parola passa ai protagonisti.
Scopo di questa pellicola è –come la tag line del film ammonisce “spero che lo vedano i nostri genitori così ci capiranno meglio” –, ricordare ancora una volta il supposto profondo divario che intercorre tra l’età adulta e quella dell’infanzia, ricca di quell’ingenuità e quella purezza che consente di avere uno sguardo inedito e sincero sulla realtà.
L’impressione che se ne trae tuttavia, non è tanto quella di un piccolo mondo antico perduto e per certi versi incomprensibile ai rigidi canoni interpretativi propri dell’algido mondo dei grandi, quanto piuttosto di un mondo degli adulti bonsai.
I bambini intervistati ripropongono sostanzialmente, nelle argomentazioni come nell’aspetto, nel modo di parlare come nei gusti e nelle opinioni politiche o sociali che iniziano a formarsi, le parole i ragionamenti che sentono dai “grandi” con cui si relazionano.
Certo, si obietterà, in questo non c’è nulla di male, da sempre la famiglia è il luogo di formazione della coscienza individuale dei piccoli, ma a un più attento sguardo antropologico, che superi l’istintuale tenerezza che si prova dinnanzi alla puerilità e alla semplicità di talune argomentazioni, quello che se ne trae è piuttosto la forte mancanza di un autonomo spirito critico e creativo di questi giovani attori. Se lo scopo era quello di porre la telecamera all’altezza di chi è generalmente escluso dal racconto della storia, l’obiettivo è stato raggiunto in pieno.
Peccato che questa nuova generazione non pare avere nulla di particolarmente innovativo da raccontarci.
I bambini sanno. Ma cosa, esattamente? Ripetono quello che sentono dire in famiglia, cioè quell’accozzaglia di luoghi comuni e stereotipi che stanno facendo naufragare il nostro bel paese. Così giovani e così anziani da avere già un glorioso futuro dietro le spalle.
Merito di Veltroni è quello di aver dialogato con interlocutori assai differenti fra loro –dalle gemelle down alla figlia di una coppia di lesbiche, dal nipote del militante ucciso dalle BR all’ultimo migrante sbarcato a Lampedusa–, fornendo una visione laica e non ideologicamente piegata a qualche pensiero dominante.
Ma tale franchezza narrativa è anche la pecca del film, che manca di una vera e propria conclusione: le cose stanno così, e quindi? È un bene o un male? Cosa possiamo fare?
Un’esaltazione degli stereotipi e dei luoghi comuni sulla sacralità dell’infanzia che stermina qualunque velleità d’indagine o denuncia sociale.