Per essere alla sua prima regia con I due volti di gennaio, nelle sale italiane dal 9 Ottobre, Hoseein Amini ha colpito nel segno.
Alla materia non è certo profano, come dimostrano le passate esperienze nel mondo del cinema: candidato ad un BAFTA e un Oscar nel 1998 per Le ali dell’amore, ha poi firmato le sceneggiature di Jude, Drive, e del più recente Biancaneve e il cacciatore. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith autrice de Il talento di Mr Ripley, è un thriller che per sobrietà, attenzione ai dettagli ed equilibrio ricorda in parte la classe di Alfred Hitchcock.
Nell’Atene del 1962 tre sconosciuti si incrociano in un triangolo da cui non usciranno più: Chester (Viggo Mortensen), misterioso e seducente uomo d’affari americano, la giovane moglie Colette (Kirsten Dunst), disincantata ammaliatrice, e Rydal (Oscar Isaac), un giovane americano che parla greco e si guadagna da vivere truffando le turiste cui fa da guida. Ma, come lo stesso Chester afferma a denti stretti l’apparenza inganna, e dopo un primo omicidio, in un crescendo di mistero e suspance, nessuno dei tre protagonisti uscirà dal labirinto in cui è scivolato.
Mentre la matassa dei sinistri si infittisce, le personalità dei tre si dipanano chiare nella loro fisionomia. Se Patricia Highsmith nei suoi romanzi riesce a rendere personaggi viscidi e torbidi (come lo stesso Mr Ripley) amati dal lettore, Amini è riuscito — cosa rara — a non tradire la vera bellezza del romanzo: appassionare lo spettatore che a fine pellicola si rende conto di aver osservato una storia sporca, nella quale ha patteggiato per personaggi che nella vita reale considererebbe ignobili — ma che in fondo agiscono come il nostro io più oscuro farebbe —.
Grande merito va in questo senso riconosciuto al compositore Alberto Inglesias — già noto per le collaborazioni con Pedro Almodovar —, che ha saputo creare una perfetta armonia tra i personaggi ed una musica che punteggia gli avvenimenti, fungendo da cassa di risonanza della loro emotività. La qualità della fotografia e della scenografia non è solamente giustificata da un set invidiabile — il film è stato girato tra la Grecia e la Turchia —, ma, cosa cui purtroppo non siamo più abituati, trucco e parrucco sono ineccepibili e contribuiscono allo svolgimento dell’azione. Ciò che Chester e Colette indossano mostra la loro ricchezza e raffinatezza: per Chester, impeccabile in completo panna, il costumista Steven Noble ha preso ispirazione da Il Grande Gatsby — sfumando così il personaggio di una tinta assente nel libro —, mentre la silhouette degli abiti scelti per Colette rendono la camminata della Dunst ancora più sensuale consentendole di calarsi, come la stessa attrice ha avuto a dire, ancor più “nei panni” di una ricca sfrontata americana.
Nonostante tale dovizia di dettagli, l’intento del regista non è quello di soffocare attori e spettatori nella maniacale ricostruzione di un piccolo mondo antico, ma di rendere un certo qual senso di libertà, evidenziato anche dalle frequenti inquadrature del volo di uccelli. Forse fin troppo palese leitmotiv del film è quello del greco senso di lotta degli uomini contro i capricci degli dei. Non solo nella primissima scena Rydal ricorda ad un gruppo di turisti in visita al Partenone lo scherzo che gli dei tesero al re Egeo quando vide issarsi sulla nave del figlio una vela nera —segno di morte —, ma anche Colette durante una digressione sul suo passato ammette di avere “voltato le spalle a dio“. Ma si tratta davvero di una partita a dadi tra divinità annoiate, o non sarà piuttosto un gioco al massacro del quale Chester, Colette e Kirsten hanno perso il controllo?