“Si quando è piano è vermante, ma quando è forte è veramente forte“. Come non usare le parole di Peter Hammil per raccontare la musica e lo spettacolo che i Van Der Graaf Generator, nella prima data del loro tour italiano, hanno dato all’Auditorium di Roma ieri sera 4 Aprile 2011. Tornate indietro ai tempi del vero rock progressive, della psichedelia e dell’experimental rock, prendete ad esempio i Pink Floyd, togliete la parte più elettrica e aggiungete i fiati insieme a due tastiere, ecco i Van Der Graaf Generator potrebbero essere descritti così, eppure tutto ciò sarebbe riduttivo. A 60 anni suonati, di cui oltre 40 passati a fare musica, rinnovarsi ed innovare, Peter Hammil, Guy Evans e Hugh Banton riescono ancora a salire su un palco donare al pubblico quanto di meglio hanno nel loro bagaglio. Un affiatamento tra i componenti ed una precisione tecnica da far venire i brividi anche ai più scettici, con dei suoni tale da creare un’atmosfera allo stesso tempo rilassante ed eccitante. Questi sono ancora oggi i Van Der Graaf Generator. All’auditorium di Roma, nonostante la mancanza di David Jackson e dei suoi fiati, i componenti band hanno fatto capire da subito di che pasta sono ancora fatti, da “Interference Patterns” con i suoi cicli quasi paranoici ed i minimilasmi delle tastiere suscitano l’interesse anche di chi li c’era quasi per caso. Il proseiguo è dei migliori, con la nuova “Mr. Sands” tratta dal loro ultimo lavoro “A Grounding In Numbers”, l’album che stanno presentando in questo periodo, brano che movimenta un pò la serata e che in crescendo dimostra che i Van Der Graaf Generator anche nel 2011 sanno fare rock progressivo, anche quando continuano sempre dallo stesso album con “Your Time Starts Now”. Ci fanno riascoltare un altro pezzo vecchio ma non troppo tornando a “Trisector” con “Lifetime”, brano che allo stesso tempo sa di dolce e tetro. Poi nuovamente all’ultimo album con la ballata “Bunsho” che ai più nostalgici fa tornare in mente i VDGG dei primi tempi, addolcendo così il passaggio a “Childlike Faith in Childhood’s End”, brano che arriva direttamente dal 1976 (da “Still Life”). Quest’ultimo brano serve da legame con i due successivi (tratti ancora una volta rispettivamente dall’ultimo e dal penultimo disco), prima “All Over The Place” con la perfezione degli arrangiamenti e lo stile impeccabile, poi con “Over The Hill” che apre a percorsi ancora poco esplorati e che quasi tira fuori l’anima di Peter Hammill. A questo punto noi, come il pubblico tutto, siamo in estasi, “We Are Not Here” e “Man-Erg” preparano solo il gran finale, prima di un piccolo bis che ci lascia soddisfasti e contenti il vero finale è quello di “Killer”, forse il loro brano più noto, che dal vivo rende ancora di più di come si sente in studio ed anche se manca il sassofono i tre sono a dir poco sublimi. Noi andiamo via emozionati, contenti di aver assistito ad uno spettacolo che se anche esteticamente ha poco da dire, musicalmente di sicuro non ha niente da invidiare a nessuno. Notiamo che ancora una volta lo staff di Barley Arts ha fatto centro, così l’unica cosa che possiamo far è consigliare a chi può di andare ad una delle prossime date in Italia perchè sicuramente non ci sarà nulla di cui pentirsi.