Nick Carraway (Tobey Maguire) è un’aspirante scrittore trasferitosi dal Midwest a New York, nella primavera del 1922. Nick vive a pieno i ruggenti anni Venti: un epoca di dissolutezza, jazz, contrabbandieri di alcool e di azioni in borsa alle stelle. Inseguendo il suo Sogno Americano, Nick si trova ad avere come vicino di casa un misterioso milionario e grande organizzatore di feste, Jay Gatsby (Leonardo Di Caprio), e a frequentare la cugina Daisy (Carey Mulligan) e il suo donnaiolo marito di sangue blu, Tom Buchanan (Joel Edgerton). Da quel momento Nick viene trascinato nell’affascinante mondo dei super ricchi, fatto di illusioni, amori ed inganni e si trova ad essere testimone dall’interno e dall’esterno di un mondo luccicante e tragico in egual misura.
“Non si può ripetere il passato? Certo che si può!”. A pronunciare queste parole è Jay Gatsby, ma a farle sue è il regista Baz Luhrmann che applica il suo stile colorato e iperestetico, alla “Moulin Rouge”, per adattare il celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerald, già portato su grande schermo da Jack Clayton nel 1974, con scarsa fortuna.
Ma da “Moulin Rouge” ad oggi sono passati dodici anni e si sentono tutti: la freschezza, l’originalità e la straordinaria carica inventiva di allora hanno lasciato il passo ad un manierismo amorfo, ad una messa in scena tanto marcatamente personalizzata e compiaciuta quanto esteticamente autistica.
“Il grande Gatsby” di Baz Luhrmann è un film barocco e ipertrofico, senza essere minimamente ispirato, abbandonato ad un estetismo caricato e grossolano, tanto eccessivo quanto povero di sostanza. Luhrmann è schiavo di una voglia di sorprendere a tutti i costi, di una ricerca visiva quasi estrema, di un postmodernismo vetusto e a tratti ridicolo.
La prima mezz’ora del film è un duplice pugno negli occhi e nelle orecchie dello spettatore, bombardato letteralmente da una stordente sequela di immagini patinate e da una delle colonne sonore più cacofoniche della storia del cinema. Poi la narrazione si fa più classica, meno rutilante e caotica, ma ugualmente inefficace, sempre troppo attenta a sottolineare tutto, a rendere esplicita ogni sfumatura psicologica, appesantendo anche i momenti più drammatici e intensi con una voce narrante logorroica, petulante e spesso e volentieri superflua.
Fedele quasi pedissequamente alla trama del romanzo, “Il grande Gatsby” di Baz Luhrmann ne tradisce profondamente lo spirito. Mentre Scott Fitzgerald punta sull’essenzialità e sui sottointesi, Luhrmann sceglie una chiave di lettura diametralmente opposta, tanto discutibile quanto (soprattutto) controproducente. Perché la confezione tanto ben curata, sgargiante e smodata finisce inevitabilmente per essere vacua, respingente, emotivamente frigida.
“Il grande Gatsby” è un film senz’anima, privo di equilibrio e di direzione, confuso e noioso, incapace di restituire anche in minima parte un affresco dell’America anni Venti, stravagante e corrotta. Dietro uno sfavillio di facciata, Scott Fitzgerald ci raccontava le fragilità e le contraddizioni del mito americano: Luhrmann pare essere interessato solo alla facciata e i suoi lati oscuri sono trattati con eccessivo didascalismo. I monologhi interiori e le riflessioni di Nick Carraway, ad esempio, vengono riportati fedelmente dal testo allo schermo, ma perdono forza e incisività: ostentati e contemporaneamente banalizzati.
Al di là della meraviglia estetica (con tanto di, ennesimo, inutile utilizzo del 3D) poco o nulla: “Il grande Gatsby” è un film la cui pomposità è inversamente proporzionale alla sua riuscita e alla sua ragion d’essere.
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