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Io e te: la recensione

“Io e te” è uno dei romanzi più conosciuti ed apprezzati dallo scrittore romano Niccolò Ammaniti che ha già visto molte delle sue opere adattate per il grande schermo (“L’ultimo capodanno” di Marco Risi, “Branchie” di  Francesco Ranieri Martinotti, “Io non ho paura” e “Come Dio comanda” di Gabriele Salvatores).

Lorenzo ha quattordici anni e un rapporto complicato con il padre, che vede poco, con la madre, oppressiva, e con i compagni di scuola con i quali non ha evidentemente mai legato. In occasione della settimana bianca, organizzata dalla sua scuola, metterà in atto un meticoloso piano fingendo di partire con i compagni per poi rifugiarsi nella cantina di casa “armato” di merendine, bibite gassate e cibo in scatola. L’autoesilio del ragazzo terminerà quando verrà scoperto da Olivia, la sorellastra catanese che non vede da molto tempo a causa dei problemi di quest’ultima con l’eroina. Nonostante le difficoltà iniziali i due inizeranno a conoscersi imparando a sostenersi e scambiandosi dolci e forse irrealizzabili promesse per il futuro.

Io e te

Bernardo Bertolucci torna dietro alla macchina da presa (nove anni dopo “The Dreamers”) per realizzare l’adattamento cinematografico dell’omonimo libro di Niccolò Ammaniti e si affida a una giovane coppia di esordienti (Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco) sorprendentemente affiatata. Il regista di “Piccolo Buddha” e “L’ultimo Imperatore”, costretto sulla sedia a rotelle da una malattia invalidante, porta sul grande schermo una storia difficile, sofferta, nella quale alla limitatezza degli spazi viene contrapposta una forte e disperata verbosità resa decisamente accattivante dallo scontro dialettale romano-siciliano che acuisce la distanza tra i due fratellastri, praticamente sconosciuti.

La cantina, spesso associata nel cinema  alle storie dell’orrore, diventa in questo caso un luogo sicuro, protetto, uno spazio angusto ma allo stesso tempo rassicurante dove Lorenzo può fuggire dall’affetto materno ed evitare quello di amici e compagni di scuola in una disperata solitudine forzata e dove Olivia può rimanere lontana dalla tentazioni della droga e ripulirsi sognando un futuro felice in una fattoria. Eppure, per entrambi, l’isolamento non è sinonimo di apatia: Lorenzo ci viene mostrato come un ragazzo pieno di interessi, dalla passione per il regno animale, alla musica, alla lettura, mentre Olivia è stata una apprezzata fotografa capace di esporre le proprie opere negli Stati Uniti. Dopo la diffidenza iniziale tra i due nascerà un bisogno relazionale  istintivo – apparentemente forzato – dal quale cercheranno di trovare la forza per scacciare le loro paure. Paure vere, reali, come quelle che ingabbiano più ragazzi di quanto si possa veramente immaginare, figli di un disagio imposto dalla società e da genitori distratti. Fanno tenerezza questi due personaggi disegnati dal Bertolucci regista (ci è davvero mancato) per la loro fragilità, per le pudiche promesse, per gli abbracci e i violenti litigi.

Bertolucci (che torna a dirigere un film interamente in italiano trent’anni dopo “La tragedia di un uomo ridicolo”) ci regala una regia attenta e pulita, sofferta ma non claustrofobica, verbosa ma non pesante arricchendo il tutto con una azzeccata colonna sonora dove spicca “Ragazzo solo, Ragazza sola” , nella versione italiana composta da Mogol e cantata da David Bowie.

Consigliato

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