J. Edgar Hoover ovvero l’incarnazione della contraddittorietà e logorante ambivalenza dal potere.
Hoover è infatti rimasto a servizio dell’FBI per oltre mezzo secolo, la maggior parte degli anni trascorsi come direttore (dal 1924 al 1972) e rimasto in carica sotto la guida di ben otto Presidenti (da Calvin Coolidge a Richard Nixon) e tre guerre (Seconda guerra Mondiale, Corea e Vietnam).
Il film di Clint Eastwood racconta l’uomo che forse più di ogni altro ha influenzato la politica statunitense nel Ventesimo secolo, ponendo l’aspetto politico in secondo piano rispetto a quello privato e mischiando costantemente i piani temporali (dagli ultimi ai primissimi anni di Hoover all’FBI, passando per la lotta al crimine organizzato gli anni Trenta e saltando dai rapporti conflittuali con i Kennedy e Martin Luther King alla caccia ai rapitori del figlio di Lindberg), espediente narrativo che si fa latore della complessa, controversa, ricca e tuttora oscura vita di questo importantissimo personaggio storico.
Perché a Eastwood interessa raccontare le fragilità di un personaggio disperatamente solo che vede nell’esercizio del potere l’unica forma di compensazione all’interno di un’esistenza complessata, dominata dalla paura (di nemici reali o presunti, delle proprie emozioni, delle proprie fragilità), autocastrante e al limite della paranoia.
Il “J. Edgar” incarnato magistralmente da Leonardo Di Caprio si è volontariamente esiliato dalla vita, sempre rinchiuso nei suoi uffici e costantemente concentrato sulla risoluzione di problemi, sposando l’antico principio machiavelliano secondo cui il fine giustifica i mezzi. Qualsiasi tipo di mezzo. Intercettazioni telefoniche più o meno legali, depistaggi, false lettere, lettura di corrispondenza privata, dossier e cavilli burocratici: tutto è lecito e tutto è consentito nel nome di un bene più grande.
Il deus ex machina dell’FBI si ritrova ad essere un uomo di potere sostanzialmente impotente, che si limita ad osservare con malinconia mista a frustrazione una realtà che vorrebbe controllare in ogni suo aspetto e di cui teme ogni espressione di imprevedibilità. Hoover è emblema di un potere che lavora nell’ombra, che pesca nel torbido, mosso dalla paura e incapace di ammettere la minima falla nel sistema, anche a costo di reprimere qualsiasi contatto extra-lavorativo.
“Lei sembra non avere una vita sociale. Niente moglie, niente fidanzata, neanche l’ombra di un amico”: così viene bacchettato un giovanissimo J. Edgar dal ministro della giustizia che sta per offrirgli la direzione dell’FBI. Una frase che sintetizza egregiamente la condizione del personaggio soggiogato da una madre verso cui è arrendevolmente succube (interpretata da Judi Dench), dispotico con i suoi sottoposti (ad esclusione parziale della segretaria Helen, interpretata da Naomi Watts, verso cui ha provato una giovanile ed effimera attrazione) e ambivalente con il suo braccio destro Clyde Tolson (che ha il volto di Armie Hammer), verso cui Hoover prova un affetto che contemporaneamente lo ripugna, ma di cui sente di non poter fare a meno.
Proprio l’irrisolta relazione tra i due diviene nelle intenzioni di Eastwood e del suo sceneggiatore Dustin Lance Black (lo stesso di “Milk” di Gus Van Sant) il vero e proprio fulcro narrativo del film. La politica, il potere e tutte le nefandezze a loro collegate passano, a un certo punto, in secondo piano rispetto alla storia di un amore disperato e impossibile, unico elemento di autenticità immediatamente repressa da un Hoover che vive la propria omosessualità come una colpa, la più insopportabile (ma anche indomabile) delle debolezze di un uomo che vuole a tutti i costi essere forte senza mai riuscirci pienamente.
J. Edgar è un personaggio tragico condannato a indossare una maschera di irreprensibilità che nasconde cupezza e disperazione. Una figura destinata a rimanere memorabile grazie alla grandiosa interpretazione di Leonardo Di Caprio (nonostante il discutibile make up invecchiante), raffinato ed eclettico in un ruolo sfaccettato e difficile come pochi altri. L’amarezza, il rancore, la paranoia e la sostanziale inadeguatezza di Hoover vengono, infatti, restituiti con una semplicità e un’umanità assolutamente dirompenti.
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