Suonare alla Scala del calcio non è da tutti e a San Siro ci sono riusciti i Bon Jovi, in quella che ormai è anche la Scala del rock, al ritorno in italia dopo la strepitosa data di Udine del 2011, Jon Bon Jovi ed i suoi, seppur evidentemente mancanti della presenza di Richie Sambora, hanno saputo conquistare gli spettatori italiani, quelli di un pubblico che ha realizzato una coreografia per ringraziarlo che lo ha anche emozionato, al punto da farlo piangere.
La macchina organizzativa che ruota intorno ai Bon Jovi è come sempre precisa e puntuale, le aree nello stadio sono ben divise, con possibilità per tutti di scegliere il posto migliore da dove gustarsi lo spettacolo, e magari spendendo cifre esagerate anche di incontrare il proprio beniamino.
Gli spazi dello stadio Giuseppe Meazza permettono a chiunque di vedere bene lo spettacolo, anche se a vedere l’imponenete scenografia realizzata ispirandosi ad una Buick Electra del ’59 (si era una Buick, non una Cadillac) l’impressione è che a stare un pò più indietro si gode meglio della bellezza prodotta dalla complessa struttura costruita intorno al palco. Un prezzo da pagare troppo alto per chi vuole vedere veramente da vicino il cantante e la sua band, ma un errore forse troppo grande fatto da chi ha pensato il tutto, specie per chi il giorno dopo, vedendo i video del concerto, penserà che forse non è stato troppo furbo a stare così vicino al palco.
La serata musicale inizia quando i These Reigning Days salgono sul palco per l’apertura del concerto, iniziando con “Stand Out” quella che sarà la loro circa mezz’ora di musica, veramente piacevole e anche coinvolgente, tanto che il pubblico sul prato salta, applaude e accompagna questo gruppo che sicuramente ci riserverà molte sorprese nel futuro. La loro performance continuerà con altre 5 canzoni, tutte di ottima fattura, al punto che non vediamo l’ora di ascoltare il loro album che dovrebbe uscire a Settembre 2013. I 3 inglesi non ci deludono, anche perchè Dan Steer non è proprio uno degli ultimi arrivati nel panorama indie, lo ricordiamo già con i The Quails, ma ora sembra maturo al punto giusto e con Jonny Finnis e Joe Samsone sembra aver trovato la sua dimensione ideale, e lo mostrano quando suonano i loro due brani di punta, prima “Too Late” e poi “Changes”, soddisfando gli ascoltatori. Ragazzi genuini, al punto che dopo aver suonato scendono nel Diamond Circle ad ascoltare i Bon Jovi come tutti gli altri, ed è quando loro arrivano nel prato che capisci che l’attesa sta per finire e presto iniziare il main event della serata.
Puntuali come sono soliti fare, arrivano sul palco gli storici del gruppo: Tico Torres e David Bryan; insieme a Phil X, sostituto di Sambora e già con la band per alcune date nel 2011, a Bobby Bandiera, presenza ormai fissa nei live della band, a Hugh McDonald bassista mai accreditato ufficialmente come membro della band ma ormai parte integrante fin dal 1994, ed infine a Jon Bon Jovi, l’atteso e carismatico leader che subito viene osannato dalla folla.
L’inizio non è proprio di quelli da incorniciare, “That’s What the Water Made Me” è un brano che non prende tantissimo il pubblico, i circa 50.000 presenti, con qualche buco qua e la che sottilmente si nota ma che comunque non è indice di flop, anche se è solo un riscaldamento, già dal secondo brano, “You Give Love a Bad Name” la carica inizia ad arrivare, il pubblico inizia a seguire il cantante ed è esplosione con “Raise your hands”, brano con cui invece aveva subito preso il pubblico di Udine nel 2011, il coinvolgimento è già ad alti livelli e arriva una breve pausa in cui Jon Bon Jovi parla al pubblico e lo avverte, ci seguiranno due ore e mezzo se non tre di canzoni. Una cosa è chiara, quelli del New Jersey amano i concerti lunghi, non è una sfida a Bruce Springsteen, anzi forse è più aver appreso da un grande maestro e due volte conterraneo, sia nelle origini del suolo Italiano, sia di quelle del suolo americano, e Jon è il classico esempio di rivalsa, di realizzazione del sogno americano e lo mette in mostra anche nell’abbigliamento nella sua giacca di jeans ornata dalla bandiera a stelle e strisce degli USA.
Si riprende con “Runaway” ed un tris di altri vecchi successi che fanno entrare in sintonia la band con chi li ad ammirarli, “Lost Highway” “Born to Be My Baby”, “It’s My Life”, tutti brani cantanti all’unisono dai fan presenti, pezzi che fanno notare come sia giovani che adulti amano un gruppo che ha fatto la storia, che è stato tra i fondatori dell’hair metal, guardandosi intorno si vedono fan vecchi e nuovi, tutti accontentati dai pezzi proposti.
Con “Because We Can” succede qualcosa che si può definire magico, parte la splendida coreografia del pubblico del San Siro, che evoca ricordi di 30 anni di storia e di 30 anni di musica dei Bon Jovi, un qualcosa di straordinario che fa emozionare scendere le lacrime a Jon Bon Jovi, costretto a fermarsi e a iniziare nuovamente la canzone, ma che prontamente ripaga del regalo dando tutto se stesso.
Il momento delle hit dell’ultimo album prima continua con “What About Now”, senza nessuna nota di merito o demerito, e poi dopo le storiche ed apprezzatissime “We Got It Goin’ On” e “Keep the Faith”, con la splendida ballata “Amen” che, grazie anche al calar finalmente del buio, accende gli animi romantici dei presenti, che continuano a supportare la band in due altre canzoni che la band porta in giro da anni e con onore, prima nel momento ancora romantico di “In These Arms” e poi nella divertensissima “Captain Crash & the Beauty Queen From Mars”. C’è poco da fare, il concerto ha preso l’impronta giusta e per quanto un concerto non basta a far contenti tutti al 100% la via intrapresa fa ben intendere che dal palco si farà il possibile per dare ad ognuno ciò che vuole, tant’è che dopo “We Weren’t Born to Follow” e “Who Says You Can’t Go Home” arriva la cover di “Rockin’ All Over the World”, brano di John Fogerty, lo storico chitarrista e cantante dei Creedence Clearwater Revival.
Il finale della prima parte di concerto arriva con “I’ll Sleep When I’m Dead” e “Bad Medicine”, e su quest’ultima finalmente Jon Bon Jovi decide di staccarsi dalla sua posizione e si muove sul circle che divide il Diamond dal Gold, il cantante finalmente si avvicina per avere un contatto più fisico con tutto il publico, e purtroppo ciò ci fa notare che fino ad allora, per quanto coinvolgente, è stato distante, ed ancora una volta ci torna in mente Udine e quanto Richie Sambora manchi come presenza, nonostante ciò le mani del pubblico si alzano al cielo, tutti cantano e saltano, ci si avvicina per vedere da vicino il proprio idolo, quasi come uno tsunami si viene trasportati fino alla pausa.
Il ritorno per il primo bis lascia un poco perplessi, alternando pezzi indimenticabili ad altri meno piaciuti, i quasi dieci minuti di “Dry County” fanno contenti molti, ma l’assolo di Phil X è uno dei pochi momenti che il leader della band lascia agli altri e ancora una volta si rimpiangono gli spazi di Richie Sambora, mentre con “Someday I’ll Be Saturday Night” vi è un altro di quei momenti di gioia comune, perchè il cantante ci sa fare anche solo parlando e con gli inviti al pubblico ad interagire. Si passa a “Love’s the Only Rule”, ma è solo una parentesi che separa da “Wanted Dead or Alive”, altra grande hit, altro brano che segna l’assenza di Sambora, altro brano cantato all’unisono dal pubblico. Il trio finale di questa parte arriva con un brano eseguito per la prima volta durante il tour, Jon Bon Jovi accetta la richiesta di alcuni fan ed esegue “Undivided”, i cui richiami agli attentati dell’11 settembre 2001, sono ancora forti, e fa il botto subito dopo prima con l’allegra “Have a Nice Day” e poi con l’immancabile “Livin’ on a Prayer”, cantata se non addirittura urlata da tutti, con le mani al cielo ed i salti nelle gambe, mandando così tutti a riposo per la seconda volta.
Il secondo encore è richiesto dai tutti i 50.000 presenti ed arriva puntuale, soprattutto porta con se tutto il romanticismo che i Bon Jovi posseggono, così prima da solo Jon Bon Jovi in acustica intona il primo verso ed il ritornello di “Never Say Goodbye”, poi regala la canzone più attesa dai più, “Always”, la quale davvero si conferma come l’emblema romantico del gruppo e come canzone che unisce la vecchia generazione di fan alla nuova, infine “These Days” in un tripudio assoluto, che si preannuncia come chiusura naturale del concerto, ma non lo sarà perchè c’è ancora una sorpresa.
La sorpresa è quella che Jon non ha voglia di andare via, vuole stare ancora sul palco, vuole regalare un ultimo brano ai suoi fan e decide di far scegliere a loro quale, o forse fa finta, ma anche questo fa parte del gioco, fatto sta che si chiude con la richiesta del pubblico di “This Ain’t a Love Song”, si va via contenti del gran concerto a cui si è assistiti, si va via con la consapevolezza che non è stato il migliore della vita dei Bon Jovi, con la certezza che Phil X è un bravo turnista, ma che Richie Sambora manca negli assoli e nei cori, con l’idea che sul palco ci sono sempre meno i Bon Jovi e sempre più Jon Bon Jovi e la sua band, gruppo che non ha gli spazi che aveva in passato e che relega lo spettacolo ad un one man band.
Si va via ricordando Udine, quel concerto che ti ha fatto innamorare, pensando che quello di San Siro è stata una conferma e non una scala verso il cielo, ma d’altronde, in eventi così, non si torna mai a casa sconfitti ed il sorriso dal viso non ce lo toglierà nessuno, così come nessuno fermerà il cuore pulsante.
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