Dal loro primo film, i Manetti bros. hanno sempre perseguito una loro idea di cinema, votata al “genere” puro, sia esso horror, poliziesco o, come in questo caso, fantascienza. Forse sono gli unici in Italia che credono che si possa tornare a fare questi generi con successo, come era nei gloriosi ’70. Loro hanno il loro bel seguito di fan, e ce la mettono tutta per non deluderli. Che sia il poliziesco tv alla “Ispettore Coliandro” o quello più noir alla “Piano 17“, che sia l’horror sociale di “Zora la vampira” o l’affresco giovanile di “Torino Boys“, i Manetti bros. sono riconoscibili e spiccano nel panorama ammuffito italiano come mosche bianche. Non tutto riesce alla perfezione, e a volte i bassi budget si fanno sentire, ma la passione con cui imbastiscono le loro storie sopperisce alle carenze produttive. Il cuore e le idee non mancano.
Eccoli dunque approdare, con “L’arrivo di Wang” ad una produzione di fantascienza. Argomento difficile e spinoso, che loro trattano come è la loro maniera, ambientando il tutto a Roma, facendo di necessità virtù (in quando a location), arricchendo la storia di argomenti importanti quali il pregiudizio e la fiducia nel prossimo e vincendo una scommessa che sapeva tanto di impresa impossibile (in Italia): cioè realizzare un personaggio digitale che recita ed è presente sullo schermo per tutta la durata del film. Scommessa vinta? In parte si. Vediamo perchè.
L’arrivo di Wang parte bene, con questa traduttrice prelevata e portata bendata in un bunker dove si trova questo misterioso Signor Wang. Le prime battute sono tese, la situazione cattura l’attenzione dello spettatore, la regia dei Manetti ben si adatta alle atmosfere del film, l’uso della lingua cinese come unico modo per comunicare con il Signor Wang conferisce un effetto straniante. Fino allo svelamento del volto del Signor Wang tutte le pedine sembrano messe al punto giusto e mosse abilmente dai due registi. E’ dopo che arrivano i problemi. L’interrogatorio prosegue, instancabile, per circa quaranta minuti, troppi, se non si ha un comparto sceneggiatura ai primi livelli (e qui non è così). L’interrogatorio gira sempre intorno alle solite due domande, e chi ne esce sfinito è lo spettatore. Superato questo scoglio, comunque camuffato e “addolcito” dalle scelte registiche, il film regala notevoli sorprese, prende una svolta action inattesa fino a sterzare in un finale convincente (anche se prevedibile).
Gli attori: Francesca Cuttica nel ruolo dell’interprete appare convincente anche se ancora acerba; Ennio Fantastichini è un mostro di bravura e caratterizza il suo personaggio alla perfezione donandogli nevrosi, paure ed un tocco di ironia che lo rende irresistibile. E poi c’è lui, il misterioso Signor Wang.
Una volta constatato il disinteresse dei produttori, i Manetti hanno fatto tutto da loro, appoggiandosi per la creazione del personaggio principale agli ottimi effetti della italianissima Palantir Digital, supervisionati da Simone Silvestri. Una scommessa tecnica vinta grazie al lavoro di questo studio nato nel 2009 che ha impiegato 15 mesi di lavorazione per realizzare la creatura che per ben 13 minuti complessivi è in primo piano, protagonista assoluta della pellicola.
Nonostante i difetti sopraelencati, il film appare comunque un ottimo esempio (nonchè unico) di fantascienza italiana che ha qualcosa di non banale da dire in tema di pregiudizi.
Il film è stato presentato con successo in Festival in giro per il mondo – approderà anche in Cina – ed è stato venduto in Inghilterra. Inoltre ci sono (ma i Manetti ci tengono a mantenere il riserbo) contatti con Hollywood.
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