L’ispettore Joona Linna (Tobias Zilliacus) ha un testimone oculare della brutale carneficina di una famiglia nei sobborghi di Stoccolma. Il testimone (Jonatan Bökman), il figlio adolescente della famiglia è vivo per miracolo e non può essere interrogato in maniera convenzionale. Anche la figlia maggiore è scomparsa misteriosamente. Sembra che qualcuno stia cercando di annientare l’intera famiglia e Joona Linna teme che la ragazza possa essere la prossima vittima dell’assassino. Lottando contro il tempo, Linna persuade l’ipnotista a fare un tentativo per comunicare con il ragazzo e farlo parlare sotto ipnosi. Erik Maria Bark (Mikael Persbrandt) rompe la sua promessa solenne di non praticare più l’ipnosi e un pericoloso viaggio nella smisurata oscurità del subconscio ha inizio.
Dopo il dramma sentimentale (“Hachiko – Il tuo migliore amico” e “Dear John”) e la commedia romantica (“Il pescatore di sogni”), Lasse Hallström continua la propria personale rivisitazione dei generi cinematografici: stavolta, con “L’ipnotista”, il regista svedese si cimenta con l’horror e lo fa adattando un romanzo del connazionale Lars Kepler (pseudonimo per Alexander e Alexandra Ahndoril) e tornando a girare in patria dopo quasi venticinque anni (da “Mer om oss barn i Bullerbyn” del 1987).
Anche in questo caso, però, Lasse Hallström si conferma mediocre mestierante: “L’ipnotista” è, infatti, un thriller senz’anima, incapace di appassionare o quanto meno interessare lo spettatore. Gelido nella forma, tanto quanto nella sostanza, il film di Lasse Hallström è piatto e banale, sempre troppo attento a non uscire dal seminato della confezione patinata e impeccabile, ma insipida e sonnacchiosa.
A “L’ipnotista” sembrano mancare i cardini basici del thriller: tensione completamente assente, senso del ritmo rimosso, totale mancanza di identificazione con i personaggi e con le vicende che si trovano ad affrontare, risoluzione finale telefonatissima e abbozzata frettolosamente.
La stessa trama gialla è trattata con superficialità: i due protagonisti (l’investigatore e l’ipnotista) sono semplicemente abbozzati, privi di uno spessore psicologico solido o vagamente interessante, pur lasciando intravvedere, entrambi, delle potenzialità che vengono puntualmente disattese.
Lo stesso dicasi per il personaggio dell’assassino, appena accennato e le cui motivazioni sono spiegate sommariamente e in maniera piuttosto confusa: un difetto non da poco per un thriller che vorrebbe essere psicologico e che come tagline sfoggia l’ampollosa e ingannevole frase “la mente è il luogo del delitto”. Peccato che a tutto ciò non vi sia alcun seguito e la componente interiorizzante del racconto vengano sacrificata senza troppi patemi d’animo in nome di un poliziesco amorfo (in)degno dei peggiori gialli televisivi da sabato sera sui canali Rai.
Anche la sottotrama matrimoniale, con l’ipnotista e sua moglie Simone (Lena Olin) in costante conflitto, viene gettata alle ortiche, senza soluzione di continuità né riuscendo ad integrarsi costruttivamente con il resto della storia.
“L’ipnotista” arranca faticosamente per le sue oltre due ore di durata, senza mai un guizzo, un appiglio o una trovata che possa risollevare il film dalla sua mesta ed esiziale pochezza senza sbocchi.
Dimenticabilissimo.
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