40 milioni di budget, scenografie dantesche con circa 480 tecnici, 200 cavalli, 1000 pecore, 25 lupi e una cinquantina di addestratori e massaggiatori che si occupavano di loro.
Queste le cifre curiose e mastodontiche di L’ultimo lupo (Wolf Totem) di Jean-Jacques Annaud, che, dopo grandi successi come Sette anni in Tibet (1997), L’Amante (1992) e Il nome della rosa (1986), e forte di pellicole che avevano per protagonista degli animali (L’Orso), ritorna sul grande schermo con un colossal, dal 26 marzo al cinema anche in 3D.
Chen Zhen (Shaofeng Feng), un giovane studente di Pechino, preparatosi alla vita sui libri di testo, decide di trascorrere un periodo nelle zone interne e selvagge della Mongolia, per insegnare a leggere e scrivere ai piccoli di una tribù nomade di pastori.
A contatto con un universo valoriale quanto mai lontano dal suo, Chen scopre di essere lui quello che ha molto da imparare sulla comunità, sui legami famigliari e interpersonali, sul rispetto e sull’amicizia.
Ma soprattutto sarà grazie alla riverenza che naturalmente il lupo, dio della steppa, susciterà in lui, che egli sarà in grado di aprire il cuore alla spiritualità.
Affascinato dai sentimenti di paura e ammirazione che i pastori nutrono per questa creatura, il giovane studente decide, con l’aiuto dell’amico con cui ha lasciato la città (Shwaun Dou nel ruolo di Yang Ke) di salvare un cucciolo di lupo dallo sterminio sconsiderato che le guardie ne stanno facendo, e di crescerlo per studiarne lo sviluppo.
Il legame che si sviluppa tra i due sarà complesso e ostico, se da un lato, a causa della decisione di un ufficiale del governo di uccidere tutti i cuccioli, deve essere nascosto, dall’altro, anche tra i nomadi della comunità presso cui vive questo rapporto viene vissuto come un tradimento, una mancanza di lealtà nei loro confronti.
Il film, patrocinato dal WWF è complesso e articolato, adatto ad essere letto su più livelli, tanto che alla fine viene a crearsi un prodotto di genere ibrido, difficilmente incasellabile in una categoria o genere definito.
Senza dubbio la funzione pedagogica è lodevole e ben riuscita, tanto che l’aspetto documentaristico, didascalico e informativo sulle abitudini di vita del lupo, pare prevalere sulla continuità narrativa della vicenda.
In altri momenti Annaud è in grado di esaltare e ritrarre gli usi e i costumi della popolazione nomade protagonista del film con una delicatezza e una grazia che lascia trasparire profondo amore e rispetto, non senza una una certa velleità antropologica.
In molti luoghi invece, la perizia fotografica e i virtuosismi di macchina la fanno da padrone, e certo non immeritatamente, se si pensa non solo alla difficoltà nell’uso del 3D, ma anche all’utilizzo di droni per le riprese aeree di lupi che inseguono pecore o vedute aeree degli spostamenti degli animali.
La pellicola, indubbiamente lodevole e meritevole di plauso per tutti questi aspetti, cade, purtroppo troppo spesso nell’autocelebrazione retorica degli stilemmi e delle tecniche che utilizza egregiamente, dimenticandosi del valore del testo da cui la sceneggiatura si è sviluppata.
Il totem del lupo, uscito in Cina nel 2004, è stato un fenomeno letterario, un vero e proprio successo, tanto da divenire il secondo libro più importante in Cina dopo Il Libretto rosso di Mao Tse- Tung.
L’idea di un giovane istruito che si inoltra una realtà improbabile, pura e spoglia, ma così ricca di vita e reale nella sua austerità, è metaforica della condizione di chiusura e finzione in cui molti di noi occidentali vivono, serrati nella loro gabbia d’acciaio, forse inconsapevoli che il mondo vero è fuori e, a causa della nostra più totale abnegazione e indifferenza, sta per essere perduto.