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L’uomo d’acciaio: la recensione

Clark Kent (Henry Cavill) è sempre stato un ragazzo silenzioso, timido e riservato e fin da bambino ha dovuto far fronte a poteri straordinari, al di là della sua comprensione. Pur crescendo sotto le amorevoli cure dei genitori adottivi, Jonathan (Kevin Costner) e Martha (Diane Lane), Clark si sente sempre di più un emarginato, una persona fuori luogo: decide di indagare sul proprio passato e scopre di non essere un terrestre e di provenire da un mondo molto lontano. Negli anni seguenti Clark cerca di scoprire di più e capire qual è la sua missione sulla Terra. Nel suo viaggio alla ricerca di sé stesso, il ragazzo viene a sapere di essere figlio dello scienziato Jor-El (Russell Crowe) e proveniente dallo scomparso pianeta di Krypton.

Le cose per Kent sono destinate a complicarsi quando uno dei superstiti kryptoniani, il generale Zod (Michael Shannon) riesce a rintracciarlo, deciso a rifondare Krypton sulla Terra. Aiutato dalla bella e intraprendente giornalista Lois Lane (Amy Adams), Clark (il cui vero nome è Kal-El) dovrà lottare per salvare il suo mondo dalla distruzione.

A sette anni di distanza dal fallimentare tentativo di Bryan Singer con “Superman Returns”, la Warner ha provato a rimettere in piedi la saga del supereroe forse più famoso dell’universo fumettistico, ma, al contempo, con il minore appeal e fortuna cinematografica.

Affidandosi alle sapienti mani capaci di rilanciare la serie di Batman dalla sciagurata deriva shumacheriana (David Goyer alla sceneggiatura e Christopher Nolan in veste di co-produttore), “L’uomo d’acciaio” nasce con la velleità di ridare dignità autoriale e maturità artistica all’universo di Superman. Un’operazione tanto apprezzabile in sede progettuale quanto fallimentare alla prova dei fatti: “L’uomo d’acciaio” è, infatti, sospeso tra ambizioni alte e mero intrattenimento fracassone, mal coniugando due divergenti anime che tra loro non comunicano.

Henry Cavill e Amy Adams in una scena de L'uomo d'acciaio
Henry Cavill e Amy Adams in una scena de L’uomo d’acciaio

Da una parte l’ipertrofismo spettacolare, reiterato fino allo stremo, tipico del cinema di Zack Snyder, dall’altro l’epos ricercato, la costruzione drammaturgica e l’approfondimento psicologico dei personaggi tipico della saga batmaniana partorita da Nolan. Nel caso de “L’uomo d’acciaio”, il primo aspetto finisce col prendere nettamente il sopravvento sul secondo: il modello alla “Sucker Punch” annichilisce quello alla “Cavaliere Oscuro”, ridimensionando in corso d’opera tutto ciò che è altro rispetto al rutilante accumulo di azione, effetti speciali, “meraviglie” visive e stordenti baraonde sonore. Di Nolan c’è solo l’aspetto più deleterio dell’ultimo “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno”, ovvero un gigantismo asfissiante, l’ostinata e ripetitiva ricerca di una spettacolarità bigger than life alla lunga stancante e noiosa.

“L’uomo d’acciaio” si regge su una trama esilissima dove le conflittualità interiori di Clark Kent/Kal-El sembrano essere più un pretesto che una reale necessità narrativa, velocemente dimenticate per non sottrarre tempo prezioso alle disorientanti e interminabili sequenze action che si accumulano senza tregua, senza mai davvero intrattenere e sotterrando qualsiasi aspirazione adulta di un cinecomic che preferisce, al contrario, appiattirsi su un’estetica da videogame.

Tutto è banalizzato in nome di un enorme Barnum visivo e sonoro e le potenzialità narrative del film (interessanti, almeno stando alle premesse) vanno completamente sprecate. Non è un caso che i momenti migliori de “L’uomo d’acciaio” siano quelli in cui Superman mette da parte lo scontro con i nemici e si confronta con il suo oscuro passato per mezzo delle sue due figure paterne: a Kevin Costner è un ottimo Pa Kent, capace di emozionare, ma sacrificato troppo presto e in maniera decisamente forzata, mentre Russell Crowe riesce ad essere un convincente Jor-El, lontano dall’ampollosa superficialità del Marlon Brando del primo “Superman” firmato da Richard Donner.

Sufficiente la prova del cast di contorno (Amy Adams, Sally Field, Larry Fishburne), mentre da rivedere il protagonista Henry Cavill, dall’atletismo funzionale ma eccessivamente impostato, soprattutto nei (pochi) passaggi drammatici. Nota a margine per un deludente Michael Shannon, un generale Zod caricaturale, ennesimo personaggio negativo con sguardo spiritato, ruolo sul quale l’interprete di “Revolutionary Road” e “Boardwalk Empire” sembra essersi fossilizzato.

Henry Cavill è Superman ne L'uomo d'acciaio
Henry Cavill è Superman ne L’uomo d’acciaio

“L’uomo d’acciaio” è una cocente delusione per chi si aspettava una pellicola supereroistica matura, complessa e d’intelligente entertainment: è, invece, un prodotto opprimente, la cui maestosità spettacolosa colpisce con grossolana irruenza occhi, orecchie e mente dello spettatore senza lasciare nulla se non un gran mal di testa finale. Per chi si accontenta.

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