Sbarcherà nelle sale il 13 gennaio, “La chiave di Sara”, pellicola drammatica diretta da Gilles Paquet Brenner, trasposizione cinematografica dell’omonimo libro scritto da Tatiana De Rosnay, in grado di proporre una storia d’alto profilo ambientata nella Parigi al tempo della guerra con gli abitanti ebrei della capitale francese vittime della barbarie nazista, favorita dalla complicità di poliziotti e gendarmi (circa 9.000 unità) locali, “comandati” dal Regime di Vichy: il 17 luglio furono arrestate 13.152 persone, tra cui numerose donne e bambini con la finalità di ridurre la popolazione ebraica nella Francia occupata.
Il film
“La chiave di Sara” racconta, attraverso un continuo alternarsi tra flashback e flashforward, della drammatica mobilitazione che l’esercito nazista organizzò nell’estate del 1942 (operazione “Vento di Primavera”) tra le vie di Parigi per arrestare e successivamente deportare il maggior numero possibile di cittadini di religione ebraica. Più comunemente conosciuto come Vel d’Hiv, il rastrellamento del Velodromo d’Inverno è uno dei momenti più tristi della “Soluzione Finale” progettata dal Nazionalsocialismo, qui raccontato attraverso gli occhi della giornalista americana Julia (Kristin Scott Thomas) al presente e della piccola Sara (Mélusine Mayance) al passato. La prima impegnata in una inchiesta sul velodromo, la seconda “protagonista”, con la sua famiglia, del vergognoso rastrellamento. Lavorando alla ricostruzione degli avvenimenti, Julia scoprirà che quella che si presentava come una semplice ricerca giornalistica è invece l’occasione per scavare nella storia, trovando un inquietante filo conduttore tra la sua famiglia e quella di Sara, deportata all’età di dieci anni.
Giudizio
“La chiave di Sara” è un progetto ambizioso, carico di aspettative, considerato lo straordinario successo del best seller della De Rosnay e non tradisce l’attesa, ma solo nella prima parte del film dove viene brillantemente ricostruito il Velodromo, rigonfio di uomini donne e bambini costretti a umiliazioni psicologiche e fisiche, senza la possibilità di dissetarsi o di usufruire dei servizi igienici. Il plesso sportivo funge da parcheggio in attesa del trasferimento nei ben più temibili “campi di lavoro”, una sorta di anticamera dell’inferno. Sara Starzynski, una delle “detenute del velodromo è riuscita, grazie a un abile stratagemma, nel tentativo di sottrarre il fratellino alle grinfie della gendarmeria, rinchiudendo il piccolo in un armadio con la promessa di tornare per liberarlo. I drammatici flashback sono sapientemente alternati con le immagini attuali di una Parigi che sembra aver brillantemente dimenticato il periodo d’occupazione nazista. Ma è solo apparenza poiché dietro al silenzio si nasconde il senso di colpa collettivo, quello che cerca di risvegliare Brenner andando ad esplorare zone d’ombra di cui sappiamo ben poco, attraverso le testimonianze della gente dell’epoca “costretta” a non vedere per poter salvare la ghirba. Per questo Julia “chiede” almeno dieci pagine sulla storia di Vél d’Hiv, perché “quando le storie non vengono raccontate, poi diventano un’altra cosa: dimenticate”. Mentre la coraggiosa Sara riesce ad evadere da un campo di prigionia (grazie all’aiuto di un soldato nazista) la giornalista scoprirà che la casa in cui dovrà vivere, con il marito, è proprio quella della famiglia Starzynski: sessanta anni dopo il nastro si riavvolge e il tempo si ferma. Alla sofferenza di Sara si affianca l’amarezza di Julia che arriverà addirittura a sospettare di un possibile coinvolgimento della sua famiglia nella terribile sorte toccata alla bambina.
Peccato che al buon inizio non segua una seconda parte altrettanto buona. “La chiave di Sara” non riesce ad evitare l’entrata nel tunnel della ovvietà, lasciando spazio a personaggi improbabili (su tutti il suocero di Julia) in un tour mondiale Parigi-New York-Firenze cui la giornalista si sottoporrà nella ricerca della piccola deportata, ovviamente cresciuta. Improvvisamente veniamo catapultati in una realtà che non affascina, che non colpisce tra dialoghi scontati e situazioni da soap. Ma ecco svelato il perché: esce di scena la Sara bambina (incredibilmente ben interpretata dal talento Mélusine Mayance) e comprendiamo come fossero le sue dolorose e malinconiche espressioni a dare, in realtà, spessore alla pellicola.
Commenti finali
La delusione maggiore risiede probabilmente nelle scelte del regista che essendo di origini ebraiche avrebbe dovuto dimostrare di poter firmare una pellicola a forti tinte personali. Quel tocco di autobiografico che, escludendo un violinista ebreo omaggio del regista al nonno, non traspare. L’ottimo lavoro di ricostruzione storica viene sotterrato a causa di una seconda parte del film difficilmente digeribile in cui si salva solo la Scott – Thomas fino al discutibile e “poco francese” finale.
Una occasione persa
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