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La faida: la recensione

“La faida” è ambientato  in una zona montana dell’Albania dove si consumano le speranze di due giovani, Nik all’ultimo anno delle superiori e desideroso di aprire un internet point al termine della carriera scolastica e Rudina – di due anni più giovane – con la passione per lo studio e il sogno di un futuro universitario . Dietro di loro una classica coppia con la madre impegnata nelle faccende domestiche e un padre dall’aspetto burbero rinchiuso  in una dura routine lavorativa con la consegna porta a porta di prodotti alimentari.

Sarà proprio il pater familias a rendersi protagonista – non troppo volontariamente – di un evento che cambierà per sempre la vita dei suoi cari: l’uomo, con la collaborazione del fratello, si rende responsabile dell’omicidio di un vicino di casa avvenuto dopo una disputa su una porzione di terreno. L’evento provocherà una faida basata sulle regole dell’antico Kanun, un codice tribale del quindicesimo secolo….

La faida

 

Giudizio sul film

La  faida al tempo di Facebook: è suggestiva, in una delle prime scene del film, l’immagine del protagonista impegnato – insieme ad un coetaneo – nell’utilizzo di un cellulare di ultima generazione, di quelli che permettono l’utilizzo di foto/video e una facile connessione con il mondo dei social network. Nulla di strano, pensiamo e penserete, dopotutto siamo nel 2012. Eppure, e questo è uno dei contrasti più efficaci della pellicola, la modernità e la modernizzazione in taluni paesi condividono – forzatamente – con orgoglio e tradizione. Orgoglio come quello provato da Mark, il padre di famiglia, desideroso di vendicare l’affronto del vicino di casa, avvenuto davanti agli occhi della figlia adolescente, e tradizione come quella del Kanun, un antico codice che in alcune zone dell’Albania  sovrasta le leggi stesse dello Stato. Secondo il Kanun l’uccisione di un proprio famigliare va vendicata con il sangue e la morte di uno dei parenti maschi – fino al terzo grado – dell’assassino. Il giovane Nik sarà quindi costretto  a una prigionia tra le  mura domestiche per sfuggire alla condanna a morte mentre il padre è in fuga tra i monti.

Improvvisamente ci troviamo di fronte uno scenario da quindicesimo secolo dove dei cittadini diventano membri di una tribù con tanto di vecchi saggi e mediatori tra famiglie. La pellicola, nonostante la garanzia economica statunitense, parla decisamente albanese e lo fa attraverso gli occhi dei due figli di Mark affrontando temi come solitudine e coraggio, come quello mostrato dalla giovane Rudina impegnata a sostituire il padre nella attività lavorativa di tutti i giorni.

Sembra quasi di respirare gli odori della penisola balcanica, siamo immersi totalmente nella storia e impegnati a cogliere le sfumature, assolutamente scossi da quel microcosmo culturalmente arretrato dove il sangue deve scorrere sommandosi a quello già versato, pena il disprezzo da parte della collettività.

La famiglia prima di tutto: sembra essere questo il leitmotiv del film, per la famiglia si è disposti a sacrificare desideri personali e sotterrare sogni. Eppure il tutto appare come una cieca obbedienza condita da un manifesto egosimo come quello di Mark: “Siamo rinchiusi entrambi”, lo avverte il giovane e già saggio figlio, riferendosi alla fuga del padre che rifiutando l’arresto ha compromesso qualsiasi tentativo di mediazione interfamiliare. Poco importa, almeno fino al commovente epilogo che interrompe lo status quo e garantisce una seconda possibilità.

Commenti finali

Joshua Marston realizza una intensa pellicola “territoriale” capace di portare sul grande schermo un affresco moderno a forti tinte antiche dimostrando che alla arretratezza e all’orgoglio, a volte, si può rispondere con il coraggio ed il buon senso.

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