Quanto è migliore il mondo fuori dalle sbarre di Litchfield? La risposta la trovate guardando un semplice telegiornale, il carcere di “Orange is the new black” altro non è che un campione di un mondo variegato, in forma e colore, religione, schieramento politico e vissuto, quello in cui viviamo.
La quinta stagione, come promesso, è arrivata il 9 giugno e nel corso dei 13 episodi che la compongono si concentra sui fatti accaduti nell’arco di tre giorni successivi a quelli narrati alla fine della quarta stagione. Da qui in poi è impossibile garantire zero spoiler, per cui non diteci che non vi avevamo avvisati.
SPOILER ALERT!
Sarebbe bello e interessante poter analizzare la quinta stagione episodio per episodio ma ne verrebbe fuori un lavoro lunghissimo, sia da scrivere che da leggere (più di quanto non sia già). “Orange is the new black” riparte da Daya (Dascha Polanco) che tiene la pistola in mano puntata verso Humps, all’inizio di una rivolta in cui regnerà il caos totale. Questa nuova attesa stagione è solo leggermente sottotono rispetto alla precedente – quella del traumatico addio di Poussey (Samira Wiley) – per alcune ingenuità nella sceneggiatura e delle aggiunte delle quali si sarebbe potuto fare anche a meno. La caratteristica principale della serie, fin dalla sua prima stagione, è l’enorme quantità di personaggi ai quali prestare attenzione nella maniera più corretta – per la narrazione in generale e per il personaggio stesso, immaginate quanto sia difficile raccontare le mille sfaccettature di una rivolta che include un’intera prigione.
Partiamo da Daya, dalla quale tutto ha avuto inizio: non ci sono problematiche che non sapessimo già dalle stagioni precedenti e per la maggior parte del tempo la ragazza, confusa e disorientata, oltre che poco pentita, se ne sta in disparte. Nel corso di queste 4 stagioni il suo personaggio ha subito un’involuzione, Daya è entrata in prigione come una ragazza ingenua, ancora capace di sperare nel futuro. Ma gli orrori del carcere, gli abusi a cui lei e le altre sono sottoposte, hanno trasformato anche lei in un essere freddo, quasi privo di sentimenti. Eccetto che per una piccola scintilla, l’unica che riesce a smuovere qualcosa in lei: l’esistenza di una piccola creatura da proteggere. Lo stesso motivo che muove Ruiz (Jessica Pimentel) e Gloria (Selenis Levya): la prima decide di tradire la seconda pur di poter abbracciare la figlia per pochi istanti; Mendoza è disposta a tradire l’intera prigione in rivolta pur di avere in cambio la possibilità (nemmeno poi così certa) di vedere il figlio in coma. Daya decide di optare per il sacrificio totale, chiama la madre di Mendez “Pornobaffo” (Pablo Schreiber) pur sapendo che il figlio non è di quell’ex guardia ma di Bennett. Sfrutta l’occasione per assicurare un futuro migliore alla figlia appena nata, rimettendo in ordine il caos creato dalla madre. Quest’ultima, tanto per ricordare la sua vera natura, cerca i suoi 15 minuti di celebrità in tv, approfittando della rivolta di Litchfield per raccontare la verità su quello che accade in prigione, smontando il teatrino di Judy King (Blair Brown). Judy la privilegiata non ha avuto vita facile durante la rivolta, è stata crocifissa e umiliata ma è riuscita, nonostante tutto, a farla franca, tanto per rimarcare un concetto: comunque vada, saranno i più poveri a pagarne le conseguenze. Nemmeno gli orrori della rivolta, il caos in cui si è trovata e le motivazioni più che valide delle altre detenute hanno smosso l’animo di Judy King, che una volta fuori torna a fare ciò che sa fare meglio: pensare a se stessa.
In questo concentrato di “Orange is the new black” un concetto è molto chiaro: i ruoli si ribaltano, le vittime diventano carnefici e viceversa. Nessuno è salvo, soprattutto se di mezzo c’è il potere. Vediamo come lentamente si insinua in Taystee (Danielle Brooks), che lotta strenuamente per garantire giustizia all’amica morta, ma ogni tanto perde la bussola. Glielo sottolinea un’altra detenuta, Taystee fa saltare in aria giorni di trattative pur di non cedere ma il dubbio viene ed è lecito, siamo sicuri che lo stia facendo solo per Poussay? 50 e 50. Di certo l’attrice ha dato una gran prova, la performance migliore in assoluto, soprattutto il monologo che racchiude in sé la protesta di milioni di afroamericani e, insieme a loro, quella di altri milioni di persone che subiscono abusi di ogni genere, dentro e fuori dalle carceri, indipendentemente dall’etnia e dal credo religioso. “Orange is the new black” è un enorme calderone, che mette insieme l’islamica con le nazi, violente e pacifiste, le guardie in mutande contro le detenute armate, la prepper con la tossica, la stalker e le aspiranti vlogger. Mostra da ogni angolazione quanto sia assurdo il genere umano e quanto siamo in grado di puntare il dito contro qualcuno per i suoi pregiudizi, agendo di conseguenza solo attraverso i nostri, di pregiudizi. Insieme alla bellissima performance c’è anche quella di Crazy Eyes (Uzo Aduba), che non si smentisce e continua ad aggiungere sfumature a un personaggio perennemente a rischio caricatura. Invece Crazy Eyes è intrisa di emozioni e sentimenti che non si possono non vedere, la sua incapacità di relazionarsi “normalmente” agli altri e alle cose è straziante e tenera allo stesso tempo. (Non lasciateci mai senza Crazy Eyes).
Che fine ha fatto, invece, Piper Chapman (Taylor Schilling)? Il personaggio principale è anche il più odiato dell’intera serie e in questa quinta stagione se ne sta un po’ più in disparte. Nei tre giorni di rivolta viene lasciato spazio a tutti i gruppi di detenute, alcune sono nuove, vediamo però che Piper non ce la fa a non mettersi in mezzo a tutto quello che accade ma per fortuna lo fa in maniera meno fastidiosa rispetto al solito. Tornando alle parti superflue di cui parlavamo all’inizio, i flashback che la riguardano, insieme a quelli di un altro paio di personaggi (Janae, Red), non sono fondamentali, non aggiungono grandi informazioni alla narrazione, sono un vezzo più che una necessità. Peccato anche per Sophia (Laverne Cox), che fa una brevissima apparizione, un po’ forzata. Si fa volontariamente portare in Massima Sicurezza, sapendo benissimo quali incubi si vivano, solo per provare a incontrare Suor Helen, senza la minima certezza. Un finale aperto per lei, che probabilmente non farà ritorno nella serie. Un gran peccato.
Piscatella è il male? Lo incarna, ma ne è anche vittima. Il suo flashback spiega perché sia diventato il mostro che tortura le detenute. Non lo giustifica, non giustificherebbe niente e nessuno, però sappiamo che la mente segue sentieri strani, non sempre di nostra comprensione e non sempre così scontati. Nel suo delirio sadico, tuttavia, anche Piscatella (Brad William Henke) è cosciente del fatto che la vendetta non porti da nessuna parte, eppure decide di non frenarsi. Emerge quel che è rimasto del suo lato umano ma, come chi sta dall’altra parte della barricata, anche lui viene da un passato di abusi e da un amore che gli è stato strappato via nel più violento e atroce dei modi. La vendetta non è mai la soluzione, nel caso in cui la lezione non fosse chiara dopo 13 episodi, ma è una pulsione umana che anche la mente più stabile ha bisogno di cercare e mettere in atto per potersi liberare – e si manifesta nei modi più disparati, dalle torture fisiche, passando per le costrizioni o le privazioni fino ai talent show improvvisati. L’altra soluzione è infliggersi una punizione, c’è chi si rivolta verso gli altri – verso un sistema pieno di falle che non si sanerà mai – e chi verso se stesso. Come Bayley (Alan Aisenberg): vittima anche lui, e pure carnefice, involontario. Devastato dai sensi di colpa il ragazzo le prova tutte pur di essere certo di scontare una pena ma paradossalmente nessuno ha intenzione di punirlo, neppure il padre della vittima.
La cosa curiosa è che quasi a nessuno viene in mente di oltrepassare la recinzione: chi è rinchiuso da tanto tempo sa che non troverà nessuno e niente di buono ad aspettarla, altre sono coscienti che il mondo fuori non è che vada tanto meglio. Almeno Litchfield è un micromondo che conoscono già, nonostante non ci siano assorbenti per tutte, condizioni igieniche adeguate, cibo che appaia anche lontanamente commestibile e un altro lungo elenco di cose. Tra citazioni di “Shining”, “Pulp Fiction” e “Mamma ho perso l’aereo”, “Orange is the new black” continua a mantenere il suo ritmo serrato di eventi, nel corso dei quali si alternano grandi drammi e dilemmi, comicità e un pizzico di horror, ma durante i quali nessuna esigenza, nessuna sfumatura e nessuna persona – che sia da una parte o dall’altra – viene mai sminuita. Solo una nota stonata: la storia tra Pennsatucky (Taring Manning) e Coates (James McMenamin), non solo per il modo in cui si conclude la narrazione in questa quinta stagione ma per la base su cui poggia. Tutto è nato da uno stupro, anche se Pennsatucky ammette di provare una strana attrazione per la guardia che ha abusato di lei. Una sorta di Sindrome di Stoccolma che forse agli occhi dello spettatore appare “giustificabile” là dove tutto è caos e ognuno ha il bisogno (e il diritto) di sentirsi amato, arrivando agli estremi. Questo è un altro tassello che, seppure spiacevole, non può essere totalmente criticato e smantellato, perché non va mai contro il principio di OITNB. Perché anche i peggiori, alla fine, hanno gli stessi diritti, se vogliamo mantenerci civili e umani, al di sopra di ciò che disprezziamo. È infatti questo il più grande insegnamento che la serie ha da dare, fin dal suo esordio. “Orange is the new black” porta in alto la bandiera del nuovo femminismo e non solo: si parla di rispetto dei diritti per tutti, quelli di genere, quelli religiosi, razziali. Perché anche se spesso siamo portati a dimenticarcelo, siamo umani. Tutti.