Siamo ai giorni nostri in un piccolo villaggio da qualche parte tra l’Africa settentrionale e il Medio Oriente.
Le donne vanno a prendere l’acqua alla sorgente in cima alla montagna, sotto un sole cocente, una pratica ripetuta passivamente fin dalla notte dei tempi.
Leila, giovane sposa, istruita e cittadina, propone alle donne di fare lo sciopero dell’amore: niente più effusioni, niente più sesso fino a quando non saranno gli uomini a portare l’acqua al villaggio.
Furbizia: questa è la costante poetica del cinema di Radu Mihaileanu, autore di film applauditi ben al di là dei loro reali meriti come “Train de vie”, “Vai e vivrai” e “Il concerto”.
Ma con “La sorgente dell’amore”, presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, il gioco ruffiano di ammaliamento del pubblico comincia a mostrare la corda.
Vagamente ispirato alla commedia di Aristofane, “Lisistrata”, il film di Mihaileanu è mosso da nobili intenzioni ma sorretto da un impianto drammaturgico quanto meno precario, bozzettistico e poco approfondito.
Come sempre in Mihaileanu il dramma è stemperato da macchiette comiche che invece che integrarsi nella narrazione la bloccano, appesantendola con lo scopo neanche troppo recondito di attirarsi le simpatie degli spettatori, rilasciando qualche battutina o trovandosi protagonisti di qualche situazione divertente costruita ad hoc per suscitare empatia.
In realtà è davvero difficile entrare in sintonia con una storia come quella de “La sorgente dell’amore” che si prolunga affannosamente per oltre due ore (136 minuti!) , prevedibilissima in quasi ogni suo snodo narrativo e che tradisce furberie mal celate e manifeste. Per non parlare della faciloneria e dello schematismo con cui Mihaileanu tratteggia il mondo islamico: talmente stereotipato e folkloristico da essere poco credibile.
L’idea del regista rumeno è quella di costruire un’opera morale e di emancipazione femminile con chiare ed evidenti tonalità favolistiche: il luogo geografico indefinito, la temporalità sospesa, i personaggi monodimensionali e dalla psicologia ben definita, monolitica e immutabile, la conclusione positiva malgrado le molte avversità superate in maniera assai poco ortodossa.
La visione d’insieme de “La sorgente dell’amore” rimane comunque semplicistica, schiava di soluzioni narrative facili che prestano il fianco alla retorica più spicciola e a terzomondismo d’accatto che vorrebbe forzare un’immedesimazione nella vicenda difficilmente perpetrabile di fronte a un prodotto tanto programmatico e didascalico. Tra passi avanti e indietro equamente distribuito di fronte alla prospettiva di uno sciopero che minerebbe il tradizionale e arcaico scorrere della quotidianità, passando per gli scontri verbali e fisici tra uomini e donne, l’insorgere di violenze, lo scoppio delle crisi, il rifugio nell’integralismo, i tentativi di reazione, il film si barcamena verso un finale posticcio e di facile prevedibilità: da manuale della retorica supponente e consolatoria.
Come se non bastasse, Mihaileanu “arricchisce” il tutto con una serie di sottotrame, sempre legate al grande tema della condizione femminile (almeno nelle intenzioni), che paiono essere riprese pari pari da quelle soap opera messicane che le protagoniste de “La sorgente dell’amore” spesso citano.
Non basta un grande tema per fare un grande film, lezione che evidente Mihaileanu non intende proprio imparare. “La sorgente dell’amore” comunque ha tutti gli elementi per ingraziarsi ancora una volta una fetta di pubblico smaniosa di sentimentalismo a buon mercato e di profondità da bignami della filosofia spicciola.
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