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La versione di Barney: la recensione

Un bicchiere di whisky già quasi interamente scolato, un posacenere nel quale estinguere il mozzicone dell’ennesimo Montecristo. Due stimmate di Barney Panofsky, l’incipit simbolico e visivo del film. Le (dis)avventure del goliardico ebreo di Montreal fra giovinezza europea e maturità canadese, le bevute luculliane, i molti sigari, le tre mogli, i pasticci sentimentali e gli episodi grotteschi in cui la malasorte lo imbriglia, finalmente in sala dopo il passaggio, in concorso, a Venezia, suderanno sette camice a sottrarsi a uno dei dilemmi più laceranti dello spettatore: meglio il libro o meglio il film? Acuito, questa volta, dal fatto che il libro non è un romanzetto da edicolanti, ma “La versione di Barney”, il best-seller di Mordecai Richler, oggetto di una venerazione bibliofila planetaria.

La locandina della “Versione di Barney” di Richard J. Lewis

Compiamo, pertanto, lo sforzo (immane) di sollervare la mente dalle righe del testo, per giudicare la pellicola come entità autonoma. Evitiamo di indulgere su come i connotati caricaturali della Clara di Rachel Levebre, una libertina sballata, poco onorino il personaggio cartaceo della prima moglie del protagonista, percorsa da disagi esistenziali assai più foschi; su come la caricatura infierisca anche sulla seconda signora Panowsky impersonata da Minnie Driver, condannandola a una volgarità a senso unico; sulle traslazioni cronologiche della parabola biografica di Barney, che confondono il senso di stagioni esistenziali determinate proprio, nel romanzo, dall’epoca storica; o su di una Parigi che, per ragioni produttive (a fianco alla canadese Serendipity siede l’italiana Fandango), diventa Roma, privando quel capitolo della formazione di Barney dell’aura che era lecito attendersi. Limitiamoci all’effettivo valore di questo fluviale lungometraggio, diretto dal regista (televisivo) Richard J. Lewis e scritto dallo sceneggiatore (televisivo) Michael Konyves, che, nel ripercorrere le tragicomiche tribolazioni di un produttore di soap opera trash, ripropone per difetto lo schema tripartito del libro, tre segmenti dedicati ciascuno a una delle consorti. Va naturalmente aggiunta, alle due sopra indicate, la raffinata newyorkese Miriam, l’unica che Barney abbia mai davvero amato, la madre dei suoi figli.

Ebbene, anche prescindendo dal paragone letterario, il film delude. E sonoramente. I disequilibri interni allo script incidono sulla resa dell’insieme in una misura che neanche la regia asciutta (ma forse è solo diligente) di Lewis vale a emendare. La sommarietà psicologica dei personaggi secondari favorisce un rapido e superficiale disbrigo dei capitoli relativi ai primi due matrimoni, per consentire al protagonista di coronorare il sogno d’amore con Miriam senza distoglierlo da una sequenza inesausta di situazioni ora rocambolesche ora salaci (ubriacature a iosa e vomito annesso) che dovrebbere continuare a sollazzarci. In fondo inabile a restituire le atmosfere di dissoluzione e di crisi del romanzo (ma questo non andava detto!), il film si riserva, a parziale ricompensa della liquidità dell’insieme, una precipitazione drammatica nel finale che punta su effetti lacrimevoli scontati e ricattatori. Come, d’altronde, un po’ facile è anche la comicità che pervade il resto. E Dustin Hoffman, nel ruolo di Izzy, il padre di Barney, poliziotto manesco in pensione, non fa ridere (almeno chi non si diverta con le esternazioni da caserma di un vecchio erotomane sboccato!). L’ingrediente migliore del film rimangono i due attori principali: un Paul Giamatti, corpo impeccabile di un Barney stralunato e sornione (in odore di Golden Globe e, probabilmente, di Oscar), e un’incantevole Rosamund Pike nelle vesti sobrie di una Miriam dolce e ritrosa.

Dario Gigante

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IL NOSTRO PARERE IN BREVE

Buon Film - Comicità non sempre riuscita, a salvare il film sono i due attori principali, Rosamunde Pike e Paul Giamatti.

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