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Le Belve: la recensione del film di Oliver Stone

Due imprenditori di Laguna Beach, Ben (Aaron Johnson), pacifico e caritatevole buddista, e il suo migliore amico Chon (Taylor Kitsch), ex Navy Seal ed ex mercenario, conducono una lucrativa attività fatta in casa, producendo la migliore marijuana mai coltivata prima d’ora. Condividono inoltre un amore unico nel suo genere per la bellissima Ophelia (Blake Lively).

La vita è idilliaca nella loro cittadina nel sud della California, almeno fino a quando il cartello dei trafficanti della Mexican Baja decide di irrompere nei loro piani imponendosi come socio.

Quando Elena (Salma Hayek), lo spietato capo del cartello, e Lado (Benicio Del Toro), il suo spietato scagnozzo, sottovalutano l’infrangibile legame che tiene uniti i tre amici, Ben e Chon, attraverso l’ambiguo aiuto di un viscido agente della DEA (John Travolta), scatenano una battaglia, a prima vista già persa, contro il cartello. Così hanno inizio una serie di piani e manovre ad alto rischio, in un selvaggio scontro di volontà.

“Le Belve” è la conferma della crisi e della deriva manierista ed esiziale del cinema di Oliver Stone.

Taylor Kitsch, Blake Lively e Aaron Johnson, protagonisti de Le Belve di Oliver Stone

Dal 2004 (anno del disastroso “Alexander”) ad oggi, il regista di “Platoon” e “Wall Street” ha collezionato una serie di fiaschi commerciali, ma soprattutto film deludenti, scentrati, caricati (nel bene e nel male), fagocitati da una ricerca estetica tronfia, manifesta e alla fine deleteria.

“Le Belve” non fa eccezione: l’approccio estetico è ciò che interessa di più a Stone che non la storia dei due trafficanti dilettanti che si dividono consenzientemente la stessa donna e finiscono col pestare i piedi ad un’importante madrina del narcotraffico.

Il film di Stone è quindi estetizzante e pregno di una ricerca formale tanto esibita, quanto alla lunga fastidiosamente ridondante. Il regista è poco o nulla interessato alle vicende del libro di Don Winslow (che, curiosamente, firma la sceneggiatura del film insieme allo stesso Stone) e non fa nulla per non darlo a vedere.

L’impianto pulp della storia è poco più che un pretesto per dar vita a vezzi registici insopportabili che finiscono con l’appesantire una storia potenzialmente interessante che viene sacrificata in nome di una continua e costante ricerca dell’eccesso visivo, dell’invenzione spiazzante, dell’accumulo di input colorati e luminosi con un senso di stordimento che è sempre dietro l’angolo. Ripetitivo e, soprattutto, volgare e violento nel suo magmatico e schizofrenico cumulo di impulsi visivi.

Salma Hayek, la perfida Madrina de Le Belve di Oliver Stone

“Le Belve”, quindi, è un film che gira a vuoto, arranca seguendo una trama che presto si accortaccia su se stessa, salvo poi trovare una via d’uscita abbastanza discutibile. E non aiutano certo la causa dei personaggi senza un briciolo di spessore e ragion d’interesse: troppo prevedibile e schematici perfino nella loro amorale discesa agli inferi sia concreta che psicologica.

A deludere parzialmente le attese ci pensa anche l’eterogeneo cast: le nuove leve sembrano piuttosto impacciate e fuori parte (in particolare i due protagonisti maschili, Taylor Kitsch e Aaron Johnson); i veterani gigioneggiano fin troppo e finiscono con l’essere stucchevoli (Benicio Del Toro su tutti).

Dimenticabilissimo.

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