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Linkin Park: “Living things”. La recensione

I Linkin Park sono cresciuti. Questo è stato il primo pensiero che ho avuto appena ho finito di ascoltare il nuovo disco della formazione di Chester Bennington e soci. Il loro nuovo lavoro, “Living things“, è un lavoro diretto e veloce, senza fronzoli, almeno apparenti. Un lavoro dove la parte elettronica ha preso il sopravvento, come in un mutamento di pelle lungo anni e che si era accennato con gli album precedenti.

Basta ascoltare la prima traccia, “Lost in the echo“, per sentire il marchio di fabbrica inconfondibile dei Linkin, la voce di Chester e il rap di Mike Shinoda che si legano come sempre, in un urlo finale che ha del liberatorio. Ma basta ascoltare la seconda, “In my remains“, per capire che qualcosa è cambiato, almeno nella parte musicale, più calma e riflessiva, più elettronica e meno arrabbiata: i testi parlano sempre di vita, di introspezione, di momenti difficili, di delusioni, di promesse mai mantenute. Su questo i Linkin non deluderanno i fan più giovani, che vedono in loro una valvola di sfogo del loro disagio moderno.

La terza traccia è il singolo “Burn it down“, molto piacevole e che riprende con l’organo elettronico alcuni temi musicali tanto cari a gruppi elettronici come i Depeche Mode (per citarne uno), seguita da “Lies greed misery“, un pezzo alquanto particolare per il ritmo e per l’urlato ma che non lascia molta traccia di sè.

Con “I’ll be gone” torniamo sulle sponde del tranquillo fiume Linkin, con un pezzo calmo da cantare che siamo certi spopolerà nei concerti, seguito da “Castle of glass“, un pezzo dove la batteria e la voce di Shinoda la fanno da padrona in un testo che sembra quasi una supplica (“Portami fino all’ansa del fiume/Portami fino alla fine della lotta/Lava via il veleno dalla mia pelle/Mostrami come essere di nuovo completo“).

Linkin Park - "Living things" - Artwork

Victimized” mostra un lato diverso dei LP, quello della rabbia, del rap sporco, della cattiveria, del ghigno malvagio, della consapevolezza che porta alla rabbia e alla ribellione. Un pezzo che non esitiamo a definire da “pogo nu-metal”. E che poi viene seguito dalla canzone più calma del disco, “Roads untraveled“, accennata da un pianoforte e da una celesta e dove le voci di Shinoda e Bennington si fondono insieme in un ritornello di amori spezzati e di dolori da passare.

Da una traccia all’altra si cambia spesso genere, come in questo caso, con il passaggio a “Skin to bone“, forse una delle migliori canzoni del disco, per il suo ricordare i Linkin che furono, seguita forse dalla peggiore del disco, il rap un po’ fine a se stesso di “Until it breaks“. Ormai siamo alla fine del disco, e dopo lo strumentale “Tinfoil” c’è l’ultimo brano, la rock ballad “Powerless“, degna conclusione del disco.

Dicevano i francesi “Le Roi est mort, Vive le Roi!“. Direi che la stessa frase può essere applicata benissimo al nuovo disco dei Linkin Park. L’evoluzione mostrata con “A Thousand Suns” è arrivata a completazione. I fans più vecchi del gruppo storceranno il naso ad ascoltare questo lavoro, probabilmente, perchè non sembrano trovarsi tracce di esistenza di canzoni come “Papercut” o “Breaking the habit“. Vedremo cosa diranno i nuovi fans.
Un appunto in più sui testi: speravo in una maturazione anche da quel lato, invece niente da fare, la vena creativa di Bennington e Shinoda non si schioda dal dolore esistenziale senza redenzione. Come in una notte di cui non si sa se si vedrà l’alba.

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