Immaginate di fare il tifo per uno dei personaggi di Tolkien, uno qualsiasi. Ora, ponendolo al centro di una battaglia nella quale corre un grave pericolo, fate finta di poterlo manovrare come meglio preferite. Cosa gli fareste fare per salvarlo, e quali mosse adottereste? Ah, un’ultima cosa: voi siete dei bambini di 8 anni e state giocando con dei pupazzi.
Eccovi spiegato il backstage di “Lo Hobbit – la battaglia delle 5 armate“, ultimo capitolo della trilogia prequel del “Signore degli Anelli” diretta dal regista Peter Jackson: un insieme di azioni da mission impossible, voli acrobatici, deus ex machina come se piovessero e gag da commedia natalizia. “Se puoi sognarlo, puoi farlo“, diceva Walt Disney, regola a cui si è rifatto il neozelandese per immaginare le scene d’azione dei personaggi dell’ultimo Lo Hobbit. Perché tutto è possibile nella Terra di Mezzo, dove non esistono leggi della fisica e veridicità (ovviamente contestualizzandola in un mondo di elfi, nani, hobbit, stregoni e orchi). Non fraintendete, il film non è un insulto alla settima arte; ma è normale che si vogliano sottolineare per primi i punti critici e solo in un secondo momento quelli positivi, soprattutto quando si hanno tante aspettative su una pellicola come quella di Jackson (arrivata dopo il purgatorio “La desolazione di Smaug“).
Ai punti forti, comunque, ci arriviamo ora. “La battaglia delle 5 armate” è un film che fornisce tanto intrattenimento, strappa sorrisi che danno un tocco di leggerezza alla drammaticità di alcune scene, è senza ombra di dubbio migliore del precedente “La desolazione di Smaug” e si fa apprezzare per i suoi bei collegamenti con la ben più epica e successiva saga. Il finale è un tuffo al cuore per chi ha amato “Il signore degli anelli” e Martin Freeman, Ian McKellen e Richard Armitage danno sempre l’interpretazione più bella e convincente. Senza parlare dell’avvincente e mostruoso drago Smaug a cui purtroppo siamo costretti a dire addio: un vero peccato perché come personaggio funzionava alla perfezione. Alcuni episodi sono molto elettrizzanti ed è praticamente impossibile annoiarsi nell’arco dell’intero film perché si è sempre al centro dell’azione. Coinvolgente la musica dei titoli di coda composta da Billy Boyd, il Pipino della saga precedente, dal titolo The Last Goodbye.
Probabilmente, però, se anziché farsi piegare dalle logiche del marketing avessero fatto solo due film, come da progetto iniziale (che prevedeva solo la realizzazione di quelli che ora sono il primo e il terzo capitolo), parleremmo adesso di una mini saga onesta e simpatica, meno epica del Signore degli Anelli ma più naturale e coerente con lo spirito leggero del libro. Al contrario, invece, si è voluto aggiungere, fare accozzaglie di generi e di episodi, alcuni per non perdere gli irriducibili tolkeniani, altri per accontentare un pubblico più giovane. Quindi spazio ancora alla inutile e stucchevole storia d’amore tra Tauriel e Kìli (Evangeline Lilly e Aidan Turner), con tanto di frasi da film d’amore adolescenziale (da WTF le frasi “Mi fai sentire vivo” e “Perché l’amore fa così male?“); Legolas (Orlando Bloom) che usa i pipistrelli come fossero una tranvia; orchi che saltano fuori dall’acqua come salmoni; carretti usati come tavole da surf; bambini eroici che aiutano i padri in pericolo.
Il cinema è intrattenimento. Se vedrete il film con quest’ottica, allora potrete divertirvi ed esaltarvi come non mai. Ma se a questa massima ci aggiungerete anche che “il cinema è interpretazione”, allora forse anche voi storcerete un po’ il naso: Peter Jackson pare essersi fatto prendere un po’ troppo la mano, stavolta, e senza neanche usare troppa originalità. Ha preso un plastico di Bruno Vespa, ci ha messo dentro i Byker Mice, i Boglins e Action Man e poi li ha fatti interagire giocandoci come un bambino. Lui senz’altro si sarà divertito, lo spettatore… chissà.
Insomma, con questo ultimo capitolo si è posto definitivamente fine a un evento che ogni anno arrivava portandosi dietro polemiche, euforia, perplessità, ma anche un gran numero di spettatori: praticamente, un Festival di Sanremo. Alla luce di quanto detto potrà sembrarvi un paradosso il consiglio di andare al cinema a vederlo, ma – sul serio – non troviamo motivi validi per dirvi di starvene a casa. Perché “Lo Hobbit”, piaccia o non piaccia, vi terrà fermi, incollati alla poltrona e con gli occhi sgranati. Deciderete voi se farli piangere di lacrime, risate o gioia.