Dopo aver diretto Anne Parillaud in Nikita (1990), Natalie Portman in Leon (1994) e Michelle Yeoun in The Lady (2011) Luc Besson ha scelto di far indossare gli abiti della sua ultima eroina alla conturbante Scarlett Johansson, affiancata in Lucy — dal 25 Settembre al cinema — dal premio Oscar® Morgan Freeman. Prendete l’eccesso di Tarantino, un pizzico dell’innocenza della natura di Malick, aggiungete una buona dose delle visioni di Croenenberg, lasciate riposare per dieci anni e otterrete Lucy. Già, strano a dirsi ma Luc Besson, dopo un primo esperimento col fantascientifico de Il quinto elemento (1997), ha lavorato sul suo soggetto per ben dieci lunghi anni prima di ritenere che “la creatura” fosse pronta ad invadere i cinema di mezzo mondo. A frenarlo, l’inarrestabile turbinio delle continue scoperte scientifiche sulla mente umana — tanto che alla fine ha optato per una teoria che di scientifico non ha proprio nulla—.
Nella caotica Taiwan una tranquilla studentessa universitaria viene coinvolta in un affare malavitoso che la vedrà costretta a diventare “mulo” di CPH4, una nuova droga sintetica che consente di sfruttare quel 90% di cervello che normalmente non viene utilizzato. In seguito ad un incidente la sacca si rompe cosicché la sostanza diffusasi per il corpo aumenta esponenzialmente le capacità cognitive della giovane donna, capace di avere il totale dominio su di sé, sugli altri e sulla materia, dote che nel film viene definita — molto discutibilmente— come la “conoscenza”. Consapevole delle sue immense potenzialità decide quindi di mettersi a disposizione del celebre neuro scienziato Professor Norman. La vicenda si infittisce, e la giovane oltre-donna si vedrà costretta a combattere contro il male: quell’umanità più interessata ad avere che ad essere, che utilizza lo scibile per appagare la sua sete di profitto e potere —nota meno fantascientifica del film—.
Spicca la verve della Johansson che, finalmente affrancatasi dal ruolo di femme fatale un po’ insipida e un po’ scontata, si è saputa confrontare con una recitazione che mostra, nelle movenze del corpo e nello sguardo le sorprendenti capacità cognitive di Lucy, così lontana dalla studentessa che era prima e così vicina al prototipo della donna: Lucy è infatti il nome attribuito al primo esemplare femmina di Australopitecus afarensis rinvenuto nel 1973, come più di un fotogramma ricorda. Sottile linea rossa del film è il tema ultimamente molto di moda — ma solo, e rigorosamente solo, nelle sale cinematografiche —, del rapporto uomo-natura: se da un lato l’etologia è la chiave di volta dell’antropologia, dall’altro lo iato che separa i due è riempito da sconfortanti immagine di disastri atomici e ambientali che commentano o suggeriscono quel che stiamo vedendo o dovremmo cogliere. Sebbene un po’ caotico nella narrazione il film ha però il merito, come tutte le utopie e distopie, di sollecitare lo spettatore a riflettere sul l’impiego che oggi facciamo delle nostre capacità, sperando che non si acquieti sulla risposta implicitamente fornita alla domanda iniziale del film: “la vita ci è stata data un miliardo di anni fa, e noi, che ne abbiamo fatto?”