Un prologo e due capitoli. Primo capitolo: Justine. Si racconta la storia di Justine, interpretata da Kirsten Durst, una donna molto depressa, infelice, insoddisfatta della vita e che tenta la strada del matrimonio per uscire da un cul de sac di distruzione e autocommiserazione. Ma il suo matrimonio, a cui è dedicata tutta la prima parte del film, è un vero disastro e finisce ancor prima di iniziare. Justine fugge con il suo vestito bianco da sposa nel parco della villa dove si svolge la cerimonia, fa pipì tra gli alberi, violenta uno sconosciuto sul prato dopo essersi rifiutata al neo marito. Su tutto questo un cielo su cui incombe una tragedia annunciata. Secondo Capitolo: Claire, che ha il volto di Charlotte Gainsbourg, ormai assoldata come nuova musa del regista danese. La donna, sorella di Justine, la sua famiglia e ancora Justine sono i protagonisti di questa seconda parte del film. Ormai ciò che era solo un presentimento è diventato incubo. Melancholia, un pianeta più grande della terra dieci volte, sta per inghiottire il mondo. C’é forse solo una fievole speranza che ciò non accada. Nell’enorme villa dove Claire vive con il marito e il figlioletto, si attende quello che sembra essere irreparabile: i cavalli sono terrorizzati nella stalla, si fanno congetture, si guarda ossessivamente il cielo, quel pianeta che si avvicina, e per le due sorelle è inversione di ruoli. Justine, votata al pessimismo, trova quasi naturale che tutto scompaia, mentre la vitale Claire, che ama la vita, piange e ha paura. La tragedia finale incombe.
“La gente è cattiva. La terra merita di essere distrutta. Nessuno ne sentirà la mancanza”. Queste sono le parole che Lars Von Trier mette in bocca alla sua protagonista Justine e questa è l’idea cardine di tutto il film. “Melancholia” si pone l’obiettivo di raccontare il profondo disagio dell’essere umano nella società contemporanea, un disagio destinato a scaturire nella distruzione e nell’autodistruzione. È una fine del mondo intesa a livello personale, intima, vissuta sulla propria pelle da due sorelle che più diverse non potrebbero essere. L’orrore, il disagio, il senso incombente di fine e cataclisma vissuto interiormente, trattato da un punto di vista psicologico, lasciando spazio alla presentazione di un disastro personale, umano, di chi deve accettare la sua fine e quella dei suoi cari senza nessuna speranza, perché, forse, in questo universo non c’é davvero nessuno oltre noi. “Melancholia” così come gli antichi chiamavano quel senso di inadeguatezza, di umore nero e di depressione che può cogliere ognuno di noi e che pare aver colpito lo stesso Von Trier. Da qui la visione cupa, fosca e priva di appigli che il regista dà sul mondo. Un film votato al nichilismo, ma che al contempo sembra essere privo di idee in grado si sviluppare in maniera convincente un assunto di partenza incredibilmente complesso e affascinante. Von Trier sembra infatti costruire un film a tesi (la razza umana è malvagia e non merita di sopravvivere) ma essere privo degli adeguati strumenti per perorare tale sua convinzione, se non ricorrendo ad una messa in scena ridondantemente piena di lunghi silenzi, sguardi nel vuoto, frasi non dette o dette a metà. Inoltre “Melancholia” sembra tradire uno dei punti cardine della poetica vontrieriana, cioè quel gusto per la provocazione e per il politicamente scorretto che hanno caratterizzato tutto il suo cinema e il suo essere personaggio pubblico, attirando ugualmente schiere di fan devoti e di denigratori.
Con il suo ultimo film Von Trier sembra certificare una sostanziale involuzione del suo cinema, i cui sentori erano già riscontrabili nel criticatissimo e ben poco apprezzato (anche dai fan del regista danese) “Antichrist”. “Melancholia” è quindi un film sciapo, monocorde e ingessato, tirato estenuantemente e gratuitamente per le lunghe, costruito su una base interessante ma sviluppato in maniera clamorosamente debole. E dire che lo splendido prologo iniziale accompagnato dalle musiche del Preludio di Tristano e Isotta di Richard Wagner lasciavano presagire tutt’altro rispetto alla mediocrità che seguirà per i successivi 130 minuti. Con un primo episodio che sembra la copia annacquata di “Festen” di Thomas Vinterberg (film manifesto del Dogma ’95) e un secondo in cui il supplizio delle due sorelle in attesa dell’incombente fine del mondo è pari a quello del povero spettatore che, controllando nervosamente l’orologio, aspetta il big bang (piuttosto pacchiano) annunciato dal prologo per poter finalmente uscire dalla sala e dimenticarsi il prima possibile questa snervante esperienza cinematografica.