Fino a non troppo tempo fa il pilot era un elemento fondamentale per convincere il pubblico che sì, stava guardando la giusta serie televisiva.
Da quando esiste Netflix non è più così, le tempistiche sono notevolmente cambiate. Gli episodi sono subito a tua disposizione, non devi aspettare per scoprire cosa c’è oltre il pilot. E solitamente oltre il pilot, due o al massimo tre episodi più in là, c’è la puntata definitiva, quella che cattura la tua attenzione e ti porta a rinchiuderti in casa per scoprire come va a finire. “Mindhunter” è la prova tangibile di questo cambiamento, prima solamente percepito. Non a caso una serie tv come “Westworld“, lo scorso anno, non è stata compresa da tutti e subito, richiedeva tempi più lunghi per lo sviluppo di una trama molto complessa ma il pubblico non era più abituato a questo. Nel caso di “Mindhunter” siamo in un territorio completamente diverso ma il succo non cambia, i tempi di narrazione si dilatano ed è naturale che sia così, visto che la storia può essere spalmata su più episodi. Dieci, in questo caso. Il binge watching rimane, ma cambia forma. E nel caso di “Mindhunter” richiede qualche piccola pausa tra un episodio e l’altro, per assorbire meglio le informazioni.
Dietro la nuova serie-gioiellino di Netflix c’è Joe Penhall ma risuona forte il nome di David Fincher, che ha diretto anche alcuni episodi di questa prima stagione. Sappiamo già con certezza che arriveranno altre stagioni, anche perché questa non è stata che la punta dell’iceberg. Siamo sul finire degli anni Settanta, il cambiamento sociale si sta facendo sentire e a tratti lo strappo è quasi doloroso. Holden Ford (Jonathan Groff) è un negoziatore dell’FBI che insieme al collega Bill Tench (Holt McCallany) avvia uno studio per riuscire a trovare un modo per inquadrare i criminali. O meglio, la loro mente, il loro modo di pensare. “Mindhunter” non è il classico thriller ansiogeno in cui si aspetta il colpo di scena per saltare dalla poltrona, è l’esatto opposto. Ma è ancor più inquietante, perché i pensieri lentamente si insinuano nella testa dello spettatore così come in quella di Holden, che tra i due agenti è il più suscettibile. L’accostamento con “Il silenzio degli innocenti” sorge spontaneo, si cerca di cogliere da vicino il meccanismo che scatta nella mente di un folle criminale disposto a fare cose orribili. Sociopatici carismatici. Holden è intenzionato a portare avanti il suo approccio, del tutto innovativo per l’epoca, senza badare troppo ai rischi. Tench è coinvolto ma da buon veterano sa quando è il momento di fermarsi. Alla squadra si aggiunge Wendy Carr (Anna Torv), una psicologa dalla figura ancora non troppo definita all’interno di questa prima stagione.
La narrazione lenta di “Mindhunter” anticipa l’inevitabilità di produrre altre stagioni – sappiamo già che lo studio durerà per qualche anno – e, se vogliamo, rende il binge watching un po’ più “sano”. Come scegliere di mangiare yogurt e frutta secca al posto di puzzolenti patatine al formaggio. Proprio lo stile narrativo permette di aprire alcuni scenari senza approfondirli tutti in una volta, facciamo un salto nelle vite private dei personaggi. Conosciamo da vicino le loro difficoltà e il modo in cui il loro lavoro influenza il loro modo di essere. Il duro Tench ha fatto la guerra e ha visto di tutto, eppure la mente criminale rimane ancora un mistero incomprensibile ed è assolutamente destabilizzante. Holden è molto affascinato dallo studio, in partenza è un ragazzo goffo e all’apparenza fragile. Fin da subito capiamo che c’è un punto di innesco anche in lui, Holden è una persona al limite e di caso in caso tentenna sempre di più, motivo per cui fa il possibile per non scoprire tutte le carte. Finiamo così per assistere a un clamoroso cambiamento del personaggio, un’evoluzione che lo vede partire dall’imbranato agente intimidito dalla figura di un killer come Kemper (Cameron Britton), fino a quello più sboccato, che riesce a mettersi sullo stesso livello del suo interlocutore e non ha paura di osare. Ma lo vediamo anche sul principio di una crisi di nervi, quando tutto ciò che ha fatto in precedenza gli presenta il conto. E sembra che la sua unica spalla sia per l’appunto uno dei peggiori criminali della storia americana. Meno entusiasmante – ma questo lascia capire molto sulla personalità di Holden – è la sua relazione con Debbie (Hannah Gross). La ragazza però incarna il cambiamento degli anni Settanta: la rivoluzione, che sia sessuale, sociologica, di pensiero. La sua controparte criminale è rappresentata da un nome che basta e avanza: Charles Manson. Debbie smuove il pensiero di Holden, lo porta fuori dagli schemi. Per inclinazione il protagonista è portato a crearne di altri, ma attingendo da approcci nuovi, più freschi. Per la prima volta nella storia si inizia a parlare di “serial killer” e a scavare nella mente del criminale per capire cosa lo abbia spinto a fare ciò che ha fatto, subentra la psicologia, le discipline si intrecciano. Questa necessità di comprendere l’altro si ripercuote sui protagonisti stessi, che non possono fare a meno di mettere in discussione anche ogni aspetto della loro esistenza. Holden in primis, con la sua maniacalità. “Mindhunter” è quindi una delle migliori serie che Netflix possa offrire in questo 2017, sviluppa una narrazione degli eventi molto più realistica e asciutta, discostandosi dal sensazionalismo da blockbuster.