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Nel 1980 usciva Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio

“La mia inclinazione per l’eccesso si incorpora più facilmente in personaggi femminili”.

(Pedro Almodóvar)

Pedro Almodovar
27 ottobre 1980. Esce, in Spagna, il film che, approssimando filologicamente, possiamo definire la folgorante opera prima di Pedro Almodóvar, Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio). Approssimazione relativa non a “folgorante”, quanto alla collocazione della pellicola nel percorso del regista. Il film non rappresenta né il primo 35 mm, che data 1976 (ma trattasi di un corto, Muerte en la carrettera, per giunta disconosciuto), né il primo lungometraggio, girato nel ’78, ma in super-8. Se Pepi, Luci, Bom, presentato al Festival di San Sebastián, viene considerato l’esordio del ragazzaccio mancego è perché segna, fuor di dubbio, l’uscita dagli scantinati dell’underground e l’ingresso nei circuiti del cinema “ufficiale”. E, per noi, l’incipit di una relazione amorosa che, tra film più o meno belli, capolavori o capitomboli, dura da ormai trent’anni.
Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio
Girato in condizioni di fortuna in 16 mm e gonfiato, a fine riprese, a 35, Pepi, Luci, Bom è un prodotto già sfacciatamente almodovariano. E se basta scorrere i titoli licenziosi dei lavori amatoriali, per intuire la continuità fra i bagordi delle chicas e le intemperanze degli anni ’70, la pellicola guadagna, oggi, un significato aggiuntivo, se ripensata come germinatoio delle opere successive. E non, come vedremo, per la sola presenza delle attrici di Pedro (Maura, Roth, Siva, Serrano), o di José Salcedo, accreditato come Pepe, al montaggio.
Alsaka interpreta Bom
Il soggetto, nato per un fotoromanzo porno, è indubbiamente gracile, e pretestuoso. Pepi (Carmen Maura), eccentrica artistoide madrilena, deflorata da un poliziotto in cambio del silenzio sulla detenzione domestica di marijuana, medita vendetta, e ingaggia Bom (Alaska), cantante lesbo-punk, per sedurre Luci (Eva Siva), moglie masochista dello sbirro, inappagata da un marito brutale solo a parole. Come dare torto a Daniela Aronica, che identifica il distintivo di Pepi in una “vistosa mancanza di sintesi e unitarietà” (Pedro Almodóvar, Il Castoro, 1994)? La trama, in fondo, è soltanto una farragine balzana di tessere, dalla cui composizione deriva un mosaico policromo e dissacrante della Movida post-franchista: rock, stupefacenti, copule selvagge, travestiti e devianze d’ogni sorta. Ritratto esasperato di una generazione e di un Paese in cui la repressione autoritaria di energie creative ha ceduto il passo a una riappropriazione di sé edonistica, trasgressiva, e perdutamente fatua, per la totale latitanza di ideali palingenetici: “non esisteva il minimo senso di solidarietà, né politico, né sociale, né generazionale. Le droghe mostravano solo la loro parte ludica e il sesso era qualcosa d’igienico”, affermerà lo stesso regista. Istantanee da una Spagna “presente e assente insieme”, per citare Jean-Max Méjean (Pedro Almodóvar, Gremese, 2007), perché di Madrid nessun luogo simbolo ci viene mostrato (al massimo, nei fotogrammi finali, l’autostrada ripresa dal cavalcavia dell’ospedale, apoteosi del non luogo), mentre a dominare il campo sono le scenografie kitsch degli interni. Interni in cui (fi)brillano loro: le donne. La femminilità almodovariana perennemente sull’orlo di una crisi di nervi,
Carmen Maura interpreta Pepi
fantasiosa, debordante, assetata di vita. Pepi sarà, in futuro, Sexilia, Pepa, Kika, Raimunda. O Patty Diphusa, l’eroina del feuilleton osè scritto da Almodóvar per la rivista La Luna fra ’83 e ’84. Nulla di hard vi è, invece, nel film: i pochi amplessi e l’unica fellatio (figura dominante l’immaginario erotico almodovariano) sono farseschi e bozzettistici ai limiti dell’incorporeità. Ciò che colpisce, che frastorna, ancora oggi, è piuttosto la travolgente misticanza, cialtrona e post-moderna, di riferimenti iconico-culturali attinti ai generi e ai media più disparati, all’insegna di quel citazionismo di cui Almodóvar sarà ambasciatore, e che qui è già degnamente rappresentato da incursioni nel linguaggio televisivo (gli spot demenziali della biancheria Ponte con Cecilia Roth, all’altezza della réclame del detersivo lava-sangue di Mujeres, ‘88), nel musical (da antologia la scena del pestaggio), nel cinema melò, fulcro della cinefilia almodovariana, con una moglie trascurata che fa il verso, nelle lagnanze coniugali, a Liz Taylor nella Gatta sul tetto che scotta. E fra esibizioni generose d’incontinenze scatologiche (due anni dopo, in Labeirinto de pasiones, sarà la volta della portinaia incalzata dal lassativo), spuntano anche, alla stadio larvale, temi che troveranno una declinazione assai più elevata. Il tema del doppio, ancora lungi da implicazioni esistenziali e metafisiche (i due Esteban, la Morte e la Vita, di Todo sobre mi madre, ‘99), è già presente, per quanto affrontato in termini meramente visivi: il gemello del poliziotto anticipa il “raddoppiamento” di Sexilia in Labeirinto. Anche i risvolti metacinematografici (Pepi che, vaneggiando di realizzare un film sulla vicenda di Bom e Luci, arricchita di sviluppi sgangherati, diviene alter ego di Almodóvar e interprete dello stesso gusto per l’eccesso) non sono che l’anticamera di esiti più maturi; ma, mi si perdoni la franchezza, talvolta stucchevoli (Los abrazos rotos, 2009). Alla luce di tutto ciò, sarà il valore di testimonianza storica, o il divertimento che ancora ci procurano, credo che le ragazze del mucchio, trent’anni, se li portano bene. E allora, buon compleanno, chicas!

Dario Gigante

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