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“Omar”: il regista Abu-Assad ispirato anche a Gomorra

Dopo avervi proposto la nostra recensione su “Omar”, candidato all’Oscar 2014 come miglior film straniero, vi riportiamo l’integrale conferenza stampa del regista Hany Abu-Assad, tenutasi oggi a Firenze in occasione della Middle East Now.

In questa lunga intervista il regista palestinese ha risposto alle domande della stampa con intelligenza e un pizzico di ironia, coerentemente con lo sviluppo della sua bellissima storia d’amore, tradimento e amicizia.

Hany Abu-Assad
Hany Abu-Assad

Nel suo film ritroviamo un amore shakespeariano, simile a quello di Romeo e Giulietta. E’ stata proprio questa tragedia ad averla ispirata?
L’intenzione era di scrivere una storia d’amore e non sapevo se seguire la linea di Romeo e Giulietta o di Otello. Alla fine ho optato per il secondo, dove è proprio l’amore che finisce per uccidere l’amore stesso.

Quanto è costato il film? Ha avuto problemi durante le riprese e dopo la sua uscita?
E’ costato circa 2 milioni di dollari. Non ho avuto grossi problemi a girare il film, che tra l’altro è stato proiettato ovunque in Palestina riscuotendo un successo nei diversi strati sociali, dai più sofisticati ai più popolari. E’ piaciuto anche ad Hamas, a parte la scena del bacio.

Ci spieghi meglio.
Hamas ha un background islamico, dopotutto, quindi per loro la scena del bacio non andava bene. Hanno chiesto di tagliarla, ma ovviamente non avevano alcuna autorità per imporlo.
In ogni caso la cultura araba è sempre stata aperta all’erotismo, forse più di quanto si possa immaginare. Negli ultimi tempi l’Occidente ha individuato certi tipi di correnti – fondamentaliste – e le ha utilizzate per ritrarre l’intero quadro culturale. Ultimamente, ovvio, ci sono stati atteggiamenti più conservativi, ma in generale la cultura araba è molto ricca e aperta.

Come ha trovato gli attori protagonisti del film?
E’ stato un processo lungo, i casting sono durati 6 mesi. Gli attori hanno fatto prove e controprove, e alcuni sono stati richiamati sette volte. Solo così capisci quali saranno i ragazzi in grado di immergersi nel personaggio e diventare un tutt’uno con i protagonisti della storia. Durante le riprese, nella scena in cui Amjad viene ferito avevamo difficoltà a far interpretare all’attore la sofferenza. Lui ha solo 16 anni e abbiamo provato di tutto, anche col dolore fisico: stringendogli il polpaccio, anche col dolore fisico. (sorride)

C’è una scena nel film in cui Omar è in carcere e a causa di una semplice frase lo dichiarano colpevole. E’ davvero così semplice che ciò accada?
Quando c’è la giustizia militare tutto può essere fonte di condanna e si può andare in carcere per qualsiasi crimine. Quando c’è occupazione non c’è giustizia.

Una scena del film "Omar"
Una scena del film “Omar”

Quali sono stati i suoi modelli di riferimento per la nascita del suo film “Omar”?
Vi leggo cosa mi ero scritto prima di iniziare a scrivere la storia: ‘il film sara nella tradizione di “Rosetta” (di Jean-Pierre e Luc Dardenne), avrà la fatalità di “Sin Nombre” (di Cary Joji Fukunaga), il minimalismo e la pura emozione di “Yol” (di Serif Gören e Yilmaz Güney), l’intensità di “4 mesi, 3 settimane e 2 giorni” (di Cristian Mungiu) e il realismo di “Gomorra” (di Matteo Garrone)’.

C’è un tema ricorrente nei suoi film, che abbiamo rivisto anche nel suo precedente film “Paradise Now”: è il tema dell’espiazione dei peccati. E’ così?
E’ proprio così, non ho nient’altro da aggiungere. E’ un tema che amo intenzionalmente e forse è ricorrente proprio perché vengo da Nazaret. Lì, si sa, siamo ossessionati dal peccato. (ride)

Qual è la differenza tra il cinema americano e quello palestinese?
E’ una situazione agli estremi fra Palestina e Stati Uniti. Per fare cinema in Palestina devi dipingere le pareti, cucinare, fare personalmente molte cose. In un certo senso stimola la tua creatività. Ad Hollywood tutto è organizzato: ci sono persone adatte a fare solo determinate cose e se escono dagli schemi possono anche perdere il lavoro. Paradossalmente è più facile fare film in Palestina, perché si è obbligati ad essere creativi. Negli Stati Uniti si pensa di essere più liberi, ma in realtà ci sono tante regole e limitazioni da rispettare.

Per la distribuzione in Italia, con chi siete in contatto?
Stiamo parlando con la “New Moon” di Roma per una possibile e futura distribuzione in Italia.

I tuoi film sono una vera e propria scuola per attori, che vengono lanciati nel modo del cinema. Pensa che lavorerà ancora con alcuni di questi attori?
Sono più interessato a creare gli attori quando sono agli inizi. Quando sono giovani hanno una sorta di innocenza, di verginità su cui il regista può lavorare e far sì che i ragazzi tirino fuori le loro capacità. Quando un attore è affermato è difficile da forgiare e dargli un’impronta. Mi piace vedere gli attori quando “perdono la loro verginità”.

In occasione dell’apertura dell’evento fiorentino ha detto che “l’occupazione israeliana finirà, prima o poi”. E’ così? E il suo è un film che possiamo definire politico?
Non esiste oppressione per sempre. Da qui viene il mio ottimismo. La storia in sé non è politica, ma il film inteso come produzione culturale sì. Per ottenere la libertà occorre fare resistenza culturale. Questo messaggio può esserci nella forza di un film.

Com’è nata l’idea della scena finale?
Lessi un articolo 4-5 anni fa in cui accadeva una cosa molto simile. Quindi ho pensato di metterlo nel film.

Candidato all’Oscar come miglior film straniero, ma sconfitto dal film italiano “La Grande Bellezza”. L’ha visto? Che ne pensa?
Mi è piaciuto il film. Amo la sua fotografia e la sua musica. Anche se devo dire che le storie che parlano di decadenza mi hanno un po’ annoiato. Così come per il film “Melancholia” di Lars Von Trier: bello, ma dopo un po’ stufa.

Ha in preparazione altri film?
Sto lavorando a diverse produzioni ad Hollywood, in Europa e in Palestina. Come regista devo seguirli tutti, ma non so quali di questi progetti si svilupperanno.

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