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Orange is the new black: recensione della sesta stagione

Dalle parti di Litchfield sono cambiate molte cose dopo la rivolta della quinta stagione di “Orange is the new black”. Le detenute di minima sicurezza sono state trasferite in massima sicurezza e rimescolate in bracci diversi.

Le amicizie cambiano e si plasmano in base alle esigenze, questo è quello che accade se hai una condanna che pende sulla tua testa. Soprattutto se, proprio in base alle amicizie, potrebbe aumentare. La sesta stagione di “Orange is the new black” fa un passo indietro rispetto a quella che l’ha preceduta, che raccontava la rivolta da vicino, quasi in real time. Stavolta si torna al ritmo delle stagioni precedenti, con una panoramica sulle persone che popolano la prigione, le conseguenze delle loro azioni e le motivazioni delle loro scelte.

Un percorso che porta verso il finale

Una nuova stagione di “Orange is the new black” è stata confermata e per il momento è la serie più longeva di Netflix, oltre che una delle più fortunate. La quinta stagione non è piaciuta a molti e questo ha sicuramente influito su un ritorno al vecchio format. Vecchio, per l’appunto: vuoi per l’ambientazione, claustrofobica per definizione, vuoi perché le cartucce stanno per finire, non sembra necessario spingersi oltre una settima stagione. I personaggi che abbiamo conosciuto fin dalla prima hanno subito un’evoluzione notevole, il carcere ha cambiato tutti, dalle prigioniere alle guardie. Basti pensare al cambiamento di Joe Caputo (Nick Sandow), che ha deciso di battersi per una giusta causa all’interno di un sistema marcio e corrotto. Sistema che sta logorando Taystee, dalla scorsa stagione ormai personaggio in primo piano, con l’interpretazione di Danielle Brooks sempre eccelsa.

Ad eccezione del primo episodio, che è una bellissima opera allucinata a sé stante – con il contributo dell’immancabile Suzanne (Uzo Aduba), il resto della stagione scorre piuttosto lentamente, con i consueti flashback e l’introduzione di nuovi personaggi. In massima sicurezza il nemico da temere è capace di cose ben peggiori rispetto alla Litchfield che conoscevamo prima: Piper (Taylor Schilling) riesce a riacquistare un po’ di simpatia e la sua storia con Alex (Laura Prepon) ha raggiunto la maturità che meritava. Daya (Dascha Polanco) si è ormai rassegnata il suo destino e segue la corrente mentre altre, come Maria (Jessica Pimentel), sono alla ricerca di una pace dell’anima affidandosi alla religione. Le detenute sono “cresciute”, hanno imparato dalle loro esperienze e si rendono presto conto che l’aria in Massima è molto più pesante e bisogna essere più cauti. Mentre Red (Kate Mulgrew) vede la sua “famigilia” sgretolarsi, Blanca (Laura Gomez) sogna di costruirne una con metodi improbabili e Doggett (Taryn Manning), strampalata ma finalmente lucida, impara a non cedere più alle tentazioni.



Come sempre la serie di Netflix non si limita a raccontare episodi di vita all’interno di Litchfield. Analizza ogni sfaccettatura, da una parte e dall’altra della barricata, e le conseguenze di un sistema che continua a funzionare male. Il movimento Black Lives Matter era un tema più attuale che mai lo scorso anno (ma lo è da sempre e purtroppo lo sarà ancora), mentre per una settima stagione la riflessione si apre sull’immigrazione. Ce n’è tremendamente bisogno, vista l’era Trump e quanto sta accadendo negli USA. In questa ampia riflessione c’è spazio per tutti: per le donne, in primis, per ogni loro scelta di vita, per ogni etnia, per ogni mestiere, fino alle conseguenze psicologiche che il carcere ha sulle guardie, automaticamente etichettate come nemico assoluto all’interno di questo micro-cosmo. Le prigioniere vengono aizzate l’una contro l’altra, l’unico modo per intorpidire una realtà dolorosa e cedere il passo ad azioni deprecabili è minimizzare, fino al punto di trasformare tutto in un gioco, perdendo il contatto con la realtà. Al di sopra di questo sistema perverso campeggiano i volti di Carol (Henny Russell) e Barb (Mackenzie Phillips), due sorelle psicopatiche che si fanno la guerra da trent’anni, mandando in tilt ogni braccio di massima sicurezza. Sebbene la loro storia sia marginale, attorno alle due donne si generano nuovi meccanismi, risorgono vecchi rancori ed emergono i nuovi personaggi di questa stagione. Senza mai tralasciare una punta di comicità in mezzo a questo dramma – in cui ogni tanto si apre uno spiraglio di speranza -, subentrano personaggi come Badison (Amanda Fuller). I flashback ancora una volta sono utili a spiegarne l’evoluzione (o la regressione, fate voi), ma spesso sembrano essere solo un pretesto per allungare una sceneggiatura che forse non è più adatta a sostenere tredici episodi.

Anche se dopo tutto questo tempo è impossibile non essere affezionati alle protagoniste e alle loro storie, c’è la percezione che “Orange is the new black” abbia dato tutto quello che aveva da dare. Prima che i ritmi rallentino ancora e la serie si svuoti dei suoi importantissimi contenuti, è bene fare una riflessione per regalarle il finale che si è giustamente meritata.

 

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