“Orange is the new black” ha rivoluzionato, con la sua narrazione, il mondo delle serie tv. Sono trascorse ben sette stagioni da allora: non tutte riuscitissime, ma sempre pronte ad offrire importanti spunti di riflessione.
“Orange is the new black“, fin dall’inizio, non ha mai perso il contatto con la realtà, pur essendo ambientata in un luogo completamente isolato dall’esterno. Mai come in quest’ultima stagione i problemi della società contemporanea e della politica di Trump sono emersi così palesemente. Proprio come nelle stagioni precedenti, la serie si focalizza molto sulle detenute ma anche sulle vite delle persone che le circondano. La vita in carcere non affligge solo chi ha una condanna da scontare, ma destabilizza interi equilibri familiari – emotivi ed economici -, influenza inevitabilmente chi il carcere lo vive ogni giorno dall’altra parte (argomento affrontato anche nella consigliatissima “When they see us“). Gli effetti di Litchfield attecchiscono anche sulle guardie, molto spesso in maniera negativa. Uomini spietati e donne fragili che tutti i giorni devono fare i conti con storie difficili, situazioni ingestibili e vite private allo sfacelo.
La vita fuori da Litchfield
Piper (Taylor Schilling) torna ad essere protagonista, sperimentando la vita fuori dal carcere. Una vita che si rivela più difficile del previsto, senza nessun supporto e nemmeno un po’ di compassione da parte dei suoi stessi familiari. Per non parlare della difficoltà di portare avanti la relazione con Alex (Laura Prepon): una volta fuori, è come se Piper vivesse in un modo parallelo, inizia ad assaporare le prime opportunità e qualche spiraglio di libertà. Se la situazione è difficile per una “privilegiata” come Piper, provate a immaginare cosa possa essere per tutte le altre donne, partite già in condizione di svantaggio. Lo dimostra Cindy (Adrienne C. Moore) e lo dimostrano le statistiche, nella maggior parte dei casi gli ex detenuti sono portati a commettere crimini per sopravvivere e tornano nuovamente dietro le sbarre. Il sistema non funziona e non mette le detenute nelle condizioni di camminare sulle proprie gambe, ma la speranza di cambiamento è rappresentata da Taystee (Danielle Brooks) – in questa stagione più combattuta che mai. Il ricordo di Poussay è sempre vivo e rappresenta un’altra importante tematica affrontata in “Orange is the new black“, quella del movimento Black lives matter. Si aggiunge un altro argomento di scottante attualità, quello del movimento #metoo che va a colpire direttamente Joe Caputo (Nick Sandow) – al quale è impossibile non affezionarsi, pur riconoscendogli qualche squallida caduta di stile. L’argomento viene trattato senza un giudizio netto, mostrando quanto siano sottili i confini e quanto possa cambiare la percezione dei fatti a seconda del punto di vista. E soprattutto, mostra quanto poco ci voglia a distruggere la reputazione di una persona, senza che abbia commesso dei fatti che possano essere considerati gravissimi e irreversibili. Le dinamiche sono ben più complesse da gestire ma ci mettono di fronte a una realtà indiscutibile e cioè che è davvero difficile emettere un giudizio di fronte alle mille sfaccettature di una vicenda, senza conoscerla a 360°.
Non c’è speranza per tutti, questa è la triste realtà: no ce n’è per Red (Kate Mulgrew) nè per Lorna (Yael Stone), che continua a cercare un nascondiglio nella sua mente per non accettare quanto le accade. Nonostante i tentativi di rinnovarsi e rimettersi in piedi, non c’è speranza per Pennsatucky (Taryn Manning). C’è chi lo accetta decidendo di farsi risucchiare dal sistema, come Daya (Dascha Polanco) e chi rimane un’inguaribile ottimista, come la straordinaria Suzanne/Crazy Eyes (Uzo Aduba). Quest’ultima, insieme a Natascha Lyonne nei panni di Nicky si riconferma una delle attrici migliori dell’intera serie.
Non tutto è perfettamente riuscito, in quest’ultima stagione di una delle serie più fortunate di Netflix. Fin dal 2013, anno del suo debutto, OITNB si è contraddistinta per una narrazione tutta al femminile, estremamente complessa per via delle numerose trame alla base, ma sempre credibile, attenta e impietosa. Nella stagione finale non vengono risparmiate nuove trame, che però non vengono sviluppate sempre al meglio. L’impressione è che alcune delle storie vengano approfondite senza che sia necessario, e che invece altre rimangano bruscamente in sospeso – in particolare due storie nuove di zecca. Certo, da una parte potrebbe essere intenzionale: superati i confini di Litchfield o, ancora peggio, degli Stati Uniti, non si può sapere niente di queste persone. Diventa un’occasione in più per riflettere sull’efficacia e le modalità delle politiche di espulsione tanto care a Donald Trump. A maggior ragione se alcune vittime di queste politiche sono volti che ci hanno fatto compagnia da quando tutto ha avuto inizio, ai quali siamo affezionati.
“Orange is the new black” ha mantenuto fede al suo intento iniziale: quello di raccontare tutte le sfaccettature di una società governata dalle ingiustizie, senza mai però puntare davvero il dito contro qualcuno. Il sistema è corrotto ma per fortuna, sia da una parte che dall’altra, c’è chi cerca di fare il possibile per essere utile; ogni categoria ha i suoi colpevoli e i suoi innocenti, la fortuna latita molto spesso ma qualche volta lascia un piccolo spiraglio di luce. Che è quello di cui avevamo bisogno, trattenendo il respiro fino alla fine, per pensare che in qualche modo sia ancora possibile uscirne, essere capaci di trovare la propria libertà. Perfino dietro le sbarre non tutto è perduto.
⭐⭐⭐⭐