Un uomo vive e lavora in un’area povera di Seul, dove raggiunge, senza disdegnare l’uso e l’abuso della violenza, i crediti degli usurai.
L’uomo, cresciuto senza una famiglia, vive una vita di solitudine, vuota e apparentemente priva di pietà nei confronti del prossimo. Un giorno, improvvisamente, si presenta alla sua porta una donna di mezza età che afferma di essere sua madre, donna che molto tempo prima lo aveva abbandonato.
La sconosciuta, prostrata e penitente, sembra far breccia nel cuore arido (e per troppo tempo rimasto chiuso) dell’uomo.
Mouse d’oro (premio della critica online) e, soprattutto, Leone d’Oro al Festival di Venezia 2012. Il ritorno del regista coreano Kim Ki Duk non poteva essere più trionfale.
Con il suo diciottesimo film, Kim Ki Duk sembra, infatti, aver risolto definitivamente quella crisi artistica che sembrava aver attanagliato tutta la sua produzione recente, ripiegata su sé stessa e standardizzato su un livello di mediocrità.
“Pietà” è cinema della crudeltà in puro stile Kim Ki Duk pre “Ferro 3”. La pellicola del 2004 aveva dato avvio ad un ridimensionamento sostanziale delle ambizioni e dei risultati qualitativi del cinema dell’autore coreano. Dopo la depressione seguita ad un incidente sul set di “Dream” e l’analisi introspettiva di “Arirang”, Kim Ki Duk torna a raccontare le perversioni e la nichilistica violenza (fisica, ma anche psicologica) del nostro tempo presente.
Ma “Pietà” è tutt’altro che un film perfetto, anzi. Disomogeneo, spigoloso, ma anche estremamente affascinante, “Pietà” è una pellicola in cui Kim Ki Duk riesce a raccontare per metafore perversioni e orrori del mondo contemporaneo. Al tempo stesso tratteggia una profonda crisi valoriale e morale che sembra assalire tutti i protagonisti del suo racconto.
Costruito come un gioco di specchi in cui la prospettiva è costantemente ribaltata, “Pietà” è un atto di accusa contro il capitalismo selvaggio (incarnato dallo spietato esattore di conti, spietato, solitario e all’apparenza inumano) e contro la sua influenza sociale, il suo penetrare nel tessuto spirituale e morale di un’intera società.
“Pietà” è un azzeccatissimo titolo antifrastico, in quanto allude a quel sentimento di carità e indulgenza verso il prossimo che pare essere diventato di peso nel mondo contemporaneo. La pietà fa capolino di tanto in tanto e sembra poter frenare i protagonisti del film dai loro intenti egoistici: ma è solo un’illusione, un aleatorio momento di “debolezza” destinato a sparire rapidamente.
Disincanto, fatalismo e disperazione caratterizzano il racconto di Kim Ki Duk, uno sguardo su un’umanità destinata alla dissoluzione per sua stessa mano, accecata da sentimenti di rabbia, avidità, vendetta, frustrazione, veicolati da una violenza animalesca.
Eppure la sensazione è che “Pietà” proceda in maniera troppo meccanica, capace di regalare vere emozioni solo nel suo finale nichilista e senza speranza.
La componente tematica troppo spesso prende il sopravvento sulla messa in scena filmica e a rimanere maggiormente impresse nella memoria dello spettatore sono le cose che il film ha da dire, più che il modo in cui le dice. Cioè un modo a tratti troppo semplicistico e facile, supportato (si fa per dire) da personaggi abbastanza schematici e prevedibili nel loro duplice percorso di evoluzione e involuzione.
La vera forza vitale del film sono i due protagonisti, gli attori Lee Jung-jin e Jo Min-soo, capaci di donare vitalità e forza a questa improbabile coppia.
“Pietà” rimane un buon film, ma non di certo il migliore di Kim Ki Duk e lontano dall’essere il migliore di un concorso veneziano dal livello medio piuttosto alto.
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