Prima ancora di approdare a Hollywood, il regista greco Yorgos Lanthimos si era fatto apprezzare molto a Cannes con “Kynodontas“, tradotto poi con il titolo inglese di “Dogtooth“, forse più noto.
La storia che offre il film è sicuramente fuori dalla norma, Lanthimos ha optato per una storia surreale e a tratti grottesca che però può celare un altro pensiero al suo interno. Un’opera come “Kynodontas” infatti non può essere scritta e fatta solo per raccontare una storia fuori dagli schemi, le interpretazioni possono essere molteplici. La più condivisa, anche nel mio caso, è quella di una rappresentazione allegorica del potere, inteso come assoluto e tirannico.
Protagonista della storia è una famiglia composta da due genitori e tre figli, due femmine e un maschio. Vivono isolati in una bellissima casa con tanto di piscina, circondata dal verde, che è la loro grande gabbia dorata. Solo il padre può muoversi all’esterno, lui e la moglie continuano a manipolare le menti dei ragazzi inventando una realtà completamente diversa da quella esistente. “Dogtooth” o “Kynodontas” altro non è che il dente canino, quello che deve cadere prima che ciascuno dei figli possa lasciare la famiglia. Le informazioni distorte che arrivano loro sono manipolate senza un reale motivo, il perché non viene mai esplicitato e, salvo la confusione iniziale, lo spettatore smette pure di chiederselo.
La realtà narrata da Yorgos Lanthimos è disturbante, raccontata tramite immagini fredde in scene in cui nulla è lasciato al caso, che a volte tagliano fuori parte della visuale – limitata tanto quanto quella dei protagonisti. Una fotografia magistrale e geometrie perfette danno ulteriore forma all’opera, enfatizzando una sceneggiatura che si regge su dialoghi scarni ma efficaci. Ci sono le registrazioni che insegnano nuove parole ai ragazzi, per loro il telefono è in realtà il contenitore del sale; gli aerei possono cadere in giardino, gli zombi sono dei fiorellini gialli e i gatti sono animali spaventosi, capaci di qualsiasi cosa. Per colpa loro ma non solo, i ragazzi non devono per alcun motivo lasciare l’abitazione, il mondo esterno è un luogo da evitare. L’unica influenza esterna è quella di Cristina, un’impiegata della sicurezza dell’azienda del padre, ingaggiata per dare sfogo agli istinti sessuali del figlio. Christina riesce a corrompere anche una delle figlie, insegnandole un metodo di scambio insolito ai nostri occhi (ma solo fino a un certo punto), ovvero il sesso orale in cambio di oggetti provenienti dall’esterno. E si dà il caso che tra gli oggetti ci siano le videocassette. Se fino a poco prima i ragazzi potevano guardare in video solo loro stessi e trascorrevano le giornate alla ricerca di emozioni “forti” come tenere le dita sotto l’acqua calda, da quel momento agli occhi della figlia maggiore si apre un mondo nuovo. Decide di chiamarsi Bruce, scopre l’esistenza dei nomi (assolutamente banditi perché considerati inutili), recita le scene de “Lo squalo” e balla come in “Flashdance”.
Christina ha aperto un passaggio per predisporre la fuga dalla gabbia e qui si pone l’annosa questione: meglio vivere al sicuro nella propria gabbia e con conoscenze limitate o rischiare e scoprire il mondo esterno? Per chi guarda, la risposta è quasi ovvia, una vita così distorta e manipolata sarebbe inconcepibile per chi ha anche avuto un accenno del mondo che definiamo civilizzato. Un nordcoreano, per esempio, forse potrebbe pensarci un po’ di più, perché la situazione raccontata da Lanthimos è esattamente questo: un potere superiore, incarnato da madre e padre, che manipola le menti a suo piacimento per ottenere determinati risultati (scena emblematica è quella dei figli bendati che cercano la madre). Come nei migliori romanzi distopici, anche qui i sentimenti sono ridotti all’osso, i genitori non disdegnano la violenza fisica, non hanno nessuno slancio affettivo verso i figli e perfino il sesso è un atto meccanico, privo di trasporto. La chiusura mentale e l’ignoranza permettono manovre più semplici per indirizzare gli individui che, nella loro ignoranza sono portati a porsi poche domande. Nel film torna più volte il paragone con l’addestramento dei cani e “Kynodontas”, paragonato sempre a “The Village“, altri non è che una realtà distopica rappresentata nella maniera più basica. Cosa c’è di più primordiale di una famiglia, dopotutto? Non si sa se i due genitori siano delle menti perverse che portano avanti un esperimento, proprio perché Lanthimos lascia poco spazio a domande superficiali e risposte conseguenti; assorbe tutta l’attenzione con una narrazione sorretta da un cast che funziona benissimo e rende bene il punto di vista del “manipolato”. C’è anche una certa tendenza maschilista ad assecondare solo le esigenze sessuali del figlio e non quelle delle figlie, con risvolti a dir poco inquietanti. Nella piccola realtà distopica rappresentata nel film, in cui non manca una tendenza al citazionismo, succede poi una cosa rivoluzionaria: una mente che si illumina e le domande inizia a porsele davvero, è naturalmente portata a cercare qualcosa all’esterno, ad assecondare quella curiosità tipica dell’essere umano, a tentare di cercare la chiave per liberarsi dalle proprie catene. È in quel momento, quando all’ignoranza subentra la curiosità assieme alla possibilità concreta di imparare e/o capire altro al di fuori di ciò che è dato, che si alza il vento e i castelli di carte iniziano a vacillare.