Correva l’anno 1995 quando usciva “L’odio” (La haine) di Mathieu Kassovitz (all’epoca ventottenne), un film che aveva previsto quanto sarebbe accaduto – esattamente dieci anni dopo – nelle banlieue francesi. Le difficoltà nelle periferie parigine (e non solo), si trascinavano già da molto tempo, tanto che anche nel 1995 erano già cosa nota. Lo stesso Kassovitz, per il suo film, si è ispirato a fatti realmente accaduti, in particolare la morte di Makome M’Bowole. Alcune immagini di quei fatti accompagnano i titoli di testa de “L’odio”, che fotografa in maniera perfetta una situazione che, purtroppo, perdura tutt’oggi, che di anni dall’uscita ne sono passati 26. Il film di Kassovitz, visto oggi, suona più attuale che mai, soprattutto pensando agli scontri tra manifestanti e polizia e la violenza ingiustificata delle forze dell’ordine. Non può che venire in mente il movimento Black Lives Matter, la morte di George Floyd e le decine di persone che, come lui, sono state private della vita da agenti spietati e fuori controllo.
Alla situazione di disagio generale delle banlieue, si accompagna infatti l’atteggiamento delle forze dell’ordine, spesso contestato per episodi di violenza ingiustificati, nella maggior parte dei casi di natura razzista. Gli argomenti in ballo sono tanti e tutti ugualmente importanti e forti: la questione socio-politica, il ruolo di Marie Le-Pen e in generale delle destre, gli abusi di potere, gli immigrati di seconda generazione, il racconto sensazionalista dei media, la mancanza di rappresentanza e di punti di riferimento, la scarsa presenza delle famiglie, la mancanza di ascolto. “L’odio” è diventato un vero e proprio simbolo ed è considerato il capolavoro assoluto della filmografia di Kassovitz, proprio per la sua capacità di ritrarre una situazione così complessa e sfaccettata.
Surrealismo e pop
Il film è in bianco e nero e gioca sui contrasti e gli opposti per tutta la sua durata: centro e periferia, giorno e notte, noi e loro, forti e deboli. I protagonisti principali della storia sono tre amici, Vinz, Hubert e Saïd, interpretati rispettivamente da un grandioso Vincent Cassel, Hubert Koundé e Saïd Taghmaoui. I tre amici vivono nella banlieue parigina e seguono gli scontri tra manifestanti e polizia in un clima di tensione crescente. Le cose cambiano soprattutto dopo che il sedicenne Abdel, uno dei loro amici, viene fermato dalla polizia e viene pestato da un agente, tanto da essere ridotto in fin di vita. Vinz, il più violento tra i tre, ha intenzione di vendicarlo nel caso in cui dovesse morire.
I tre protagonisti de “L’odio” raccontano molto bene la diversità – etnica, culturale, religiosa – che si trova nelle periferie francesi. Vinz, Hubert e Saïd sono estremamente diversi tra loro e allo stesso tempo molto uniti. Nonostante i litigi e le incomprensioni, riescono a trovare un loro equilibrio e tentano di trascorrere le giornate in una periferia rumorosa e noiosa, dove il crimine e la violenza sono all’ordine del giorno. Sono moltissime le scene degne di nota del film, dalla citazione di “Taxi Driver” e “Il cacciatore” (due dei tanti omaggi al cinema americano) alla scena in cui dj Cut Killer diffonde la sua musica dalle finestre e il furto d’auto. Il racconto di Mathieu Kassovitz non è mai scontato e banale, pur non trattando una storia ricca di momenti di azione o grandi colpi di scena. È il racconto dell’ordinario, che non risulta sempre perfettamente limpido e chiaro, anche tramite di dialoghi – su tutti quello dell’uomo che, uscito dal bagno, racconta la storia del suo amico Grumvalski. A tratti, “L’odio” sfocia nel surreale, come quando Vinz sostiene di aver visto una mucca aggirarsi per il quartiere. Non sapremo mai se sia successo davvero oppure no, ma sappiamo che nessuno lo ha voluto ascoltare, ancora una volta. Vinz, su tutti, ha la personalità più irrequieta e ha una visione del mondo particolarmente violenta. Il ragazzo, proveniente da famiglia ebraica, ha il mito della pistola e i suoi due amici cercano di frenare le sue propensioni. Hubert è un ragazzo di colore che sogna di diventare pugile ma si ritrova a non avere più una palestra in cui allenarsi e le alternative che ha a disposizione per aiutare la famiglia non sono le più esemplari. Saïd è di origini maghrebine, l’anima giocosa del gruppo che smorza costantemente le tensioni e che deve fare i conti con un fratello poliziotto – una vera e propria contraddizione, rispetto al contesto in cui vive.
Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio
Mathieu Kassovitz ha saputo raccontare in maniera dura e diretta la storia di tre ragazzi giovanissimi, già condannati dalla società in cui vivono. Non c’è redenzione, benché cerchino in tutti i modi di salvarsi, dopo essere nati già marchiati come colpevoli. Nessuno intorno a loro sembra curarsene ed anzi, sembra che l’unica soluzione sia quella di abbracciare la propria condizione, senza possibilità di fuga. In ogni singola scena, anche quella in cui il dialogo può apparire estremamente superfluo, ogni dettaglio racconta perfettamente la situazione di disagio che i protagonisti stanno vivendo, facendola arrivare diretta allo stomaco dello spettatore. “L’odio” parla di una periferia in cui le giornate trascorrono lente e in cui l’unico appiglio possibile, per questi ragazzi allo sbando, sono pochi elementi, tra cui la cultura pop. Intanto, col crescere della tensione tutto intorno, diventa sempre più difficile anche per loro trattenere i sentimenti di odio e di rabbia verso una società che oltre a non considerarli, rende gli emarginati sempre più emarginati. Basta un tuffo nelle venti ore nella giornata di questi ragazzi, che dalla banlieue si ritrovano nel cuore di una delle città più belle del mondo, per cogliere a pieno tutti i loro sentimenti e il loro senso di impotenza. Lo sanno anche loro, quando si dicono che, dopotutto, non hanno niente da perdere. Nonostante questa consapevolezza della propria condizione, rimane ancora vivo l’istinto di sopravvivenza, la voglia di non cadere e riuscire a finire dalla parte dei giusti, garantirsi uno spiraglio di salvezza. Memorabile, infatti, rimane il finale aperto, che non condanna nessuno e soprattutto lascia più domande che risposte ma anche una certezza, quella della dualità di cui tutto il film è intriso: tutti sono buoni e cattivi, santi e peccatori, eroi e criminali, colpevoli e innocenti.