Matthew Gordon Sumner, ai più conosciuto come Sting, è tornato con un nuovo disco, “The last ship“. Il bassista prodigio, ex-membro dei Police con Andy Johnson e Steward Copeland e da anni impegnato in una lunga carriera solista, ha prodotto il suo undicesimo disco in carriera a distanza di 3 anni dal precedente “Symphonicities”.
Il discotrae il suo nome dalla commedia omonima che Sting metterà in scena a Broadway nel 2014 e che parla della Newcastle in cui Sting, bambino, assisteva allo smantellamento dei grandi cantieri navali, fermi ormai da anni. In “The last ship” (scritto insieme al premio Pulitzer Brian Yorkey) un prete convince un gruppo di lavoratori a ritornare al loro cantiere che era stato chiuso, per costruire una barca.
Il nuovo progetto di Sting, composto da 12 canzoni per 45 minuti di musica, ci accoglie con le prime due canzoni, la titletrack e “Dead man’s boots“, dal ritmo molto lento e dall’afflato molto personale, che ricordano in qualche modo la sorte di “The story of Tom Joad” di Bruce Springsteen.
Il disco riprende una certa vitalità con il pop raffinato e molto catchy di “And yet“, canzone che vedrei bene come scelta per essere il secondo singolo per promuovere l’album, ma ricade nella vena intimista e molto minimale delle prime canzoni con il successivo brano “August winds“, dove la voce di Sting è accompagnata solo da una chitarra e da una armonica in lontananza.
Dopo la lentezza del pezzo precedente, arriva quasi come una insospettata salvezza la simil-giga cupa e ritmata di “Language of birds“, arricchita da brani parlati. La canzone successiva, “Practical arrangement“, riprende questo stile intimista quasi da crooner, richiamando alla mente cantanti come Elvis Costello e Tom Waits: stessa sorte la trova il pezzo “I love her but she loves someone else“, dove il pianoforte fa da contrappunto alla narrazione di una triste storia d’amore.
Con “The night the pugilist learned how to dance” sembra di trovarsi nella Parigi degli Champs Elysees e in quella atmosfera magica disegnata dalle fisarmoniche. “Ballad of the Great Estern” riprende lo stesso tema di “Language of birds” con il suo rimbalzare tra pezzi cantati e pezzi parlati, in una narrazione musicale che ogni tanto zoppica.
I testi parlano della vita passata di Sting, della sua crescita e della sua giovinezza, a attraverso essi si richiamano a temi più universali come la complessità delle relazioni personali, lo scorrere del tempo e l’importanza della famiglia e della comunità che ognuno si costruisce attorno a sé.
E Sting attorno a sé riesce anche a radunare un piccolo gruppo di amici, come Jimmy Nail che canta nell’irlandesissima “What have we got? ” e Becky Unthank che duetta con lui nel penultimo pezzo “So to speak“. Nella versione deluxe del disco troviamo anche la particolarissima partecipazione di Brian Johnson, cantante degli AC/DC, nel brano “Shipyard” e “Sky hooks and tartan paint” e di Rachel Unthank nel pezzo “Peggy’s song“.
Il disco si chiude con il reprise della prima canzone, come in cerchio che si apre e si chiude con la stessa canzone, come la narrazione di una storia, quasi di una fiaba. Sapendo che il disco prende forza dalla commedia con cui Sting parla della sua gioventù, la cosa non stupisce. Forte di questa informazioni, non deve stupire nemmeno che la valutazione del suo nuovo lavoro al momento è necessariamente monca, visto che manca il pezzo più importante, ovvero la messa in scena delle stesse canzoni in quell’opera per cui sono state create, contesto dove troveranno sicuramente migliore collocazione che in un ascolto da disco che diviene così sterile e mancante di tutte le emozioni che può dare la rappresentazione teatrale. Quindi, per ora, diamo un voto di stima.
Dite la vostra!