“Ogni persona dovrebbe vivere dove desidera la sua anima”, fosse anche il luogo più pericoloso del mondo. Fosse anche Chernobyl. “The Babushkas of Chernobyl” è la storia di alcune donne che hanno deciso di tornare a vivere nel luogo del disastro nucleare, nonostante sia stato dichiarato inabitabile a causa degli altissimi livelli di radiazioni. Le Babushkas, le nonne di Chernobyl, vivono immerse nel verde, si incontrano per pregare e brindare con la vodka, ricordano i loro cari e li commemorano con i fiori, si aiutano quando possono e si sottopongono a tutti i controlli periodici. Hanno tutte ormai superato i 70 anni e presto, nei loro villaggi, non ci sarà più nessuno a tenerne memoria. Di loro resterà la storia raccontata negli articoli e in questo documentario di Anne Bogart e Holly Morris, che lascia spazio a una profonda riflessione sulle conseguenze del disastro nucleare dal punto di vista sociologico.
Amore incondizionato
Quando si parla di Chernobyl, infatti, si parla del disastro ambientale e dell’impatto che ha avuto sulla salute delle persone, relativamente alle radiazioni. Le Babushka del documentario, Hanna Zavorotnya, Valentyna Ivanivna e Maria Shovkuta, hanno vissuto più a lungo rispetto alle persone che sono state rilocate e sono rimaste lontane dalla zona di esclusione, senza farvi più ritorno. Com’è possibile, considerati gli alti livelli di radiazioni della zona e che le nonne coltivano e mangiano prodotti, come i funghi, pericolosissimi per la salute? Nessuno parla mai di un altro male, che è invisibile e non si può intercettare con un macchinario e i suoi “bip”: l’angoscia. Migliaia di persone, subito dopo l’esplosione alla centrale, sono state portate via dai loro villaggi per non farvi più ritorno. Un trauma nel trauma, che per molti si è rivelato più letale delle radiazioni. Le Babushka del documentario, e altre poche persone che hanno fatto ritorno nella Zona, spiegano che non avrebbero potuto sopportare una vita lontano dalle loro radici e dai loro ricordi. “Non può essere peggio dell’inquinamento di Kiev” dice una di loro, ironizzando, visto che le auto “riversano l’intera tavola periodica nell’aria”.
Le nonne di Chernobyl sono una dimostrazione incredibile di resistenza: affrontano le difficoltà dell’età e dell’isolamento con il sorriso sul volto e tantissima ironia. Non si perdono d’animo, si supportano a vicenda, trovano conforto nelle piccole cose, traggono forza dalla natura. Di tanto in tanto passa qualcuno, a volte sono gli addetti ai lavori che recuperano dati, altre volte sono i famosi stalker, ovvero coloro che oltrepassano i limiti della zona illegalmente, a caccia di brividi. Com’è possibile che le Babushka non siano affrante, depresse e siano rimaste in quel luogo dimenticato da tutti per così tanto tempo? In parte per la loro incrollabile fede in Dio, ma soprattutto perché, raccontano, hanno visto di peggio. “Non ho paura delle radiazioni, ma della fame sì”, dice una di loro, ricordando Holodomor, la carestia sovietica indotta da Stalin, che causò milioni di morti negli anni Trenta. E dopo la carestia, la Guerra, i corpi dei soldati da seppellire, la paura dei nemici tedeschi. Per queste donne, che hanno vissuto la povertà estrema, la fame e la disperazione, le radiazioni non possono far paura. La paura più grande, che guida le loro scelte, è quella di perdere ciò che si sono duramente conquistate e di non avere più un posto da poter veramente chiamare casa. E se casa rientra nel raggio chilometrico più contaminato del pianeta, pazienza.