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The Irishman: la recensione

Vorrei scrivere una recensione di “The Irishman” senza gridare al capolavoro e senza tirare in ballo tutte le polemiche che il film si è attirato. Vorrei scriverla senza tirare in ballo i problemi causati dai giudizi di Martin Scorsese e le vicissitudini tra lui e la Paramount, senza tirare in ballo la questione dei costosi ritocchi per ringiovanire attori troppo vecchi e il fatto che avrebbe potuto scegliere attori più giovani per tagliare i costi. Chi sceglierebbe attori più giovani se avesse a disposizione Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, mi viene da chiedere.

Vorrei scrivere una recensione senza dire che “The Irishman” è il più grande gangster movie della storia dei gangster movie. Prima di tutto perché non credo che sia così e poi perché credo che non sia sempre necessario accodarsi a quello che dicono tutti per non risultare impopolari. Non vorrei nemmeno parlare della fine di un’era, anche se l’intero film, per la sua lunghissima durata, è intriso di un certo sapore di lutto e attraversato un costante senso di malinconia. Vorrei scrivere una recensione in cui parlo di come Martin Scorsese sia stato in grado di mostrare la fatica e la sofferenza ripetuta con cui un uomo deve convivere quando fa sempre scelte sbagliate e del modo in cui si riesca perfino a empatizzare con il criminale, quando ci sono dei bravissimi attori a fare emergere questi aspetti. Vorrei scrivere dei codici verbali e dell’attenzione riservata al linguaggio che c’è in questo film, anche se in molti hanno pensato che Martin Scorsese sia un ignorante e che gli errori grammaticali non siano stati voluti e non siano necessari a denotare i personaggi e la storia che hanno alle spalle. “The Irishman” è un film che necessita di molta attenzione e ogni spettatore deve prendersi il suo tempo per guardarlo: è un viaggio a tappe nella storia del Novecento – metaforico e non solo – in cui si parla della brama di potere. Si parla di uomini accecati da questo desiderio che sovrasta ogni cosa, uomini che distruggono tutto ciò che li circonda, che vedono sgretolarsi gli affetti e comunque non riescono a tirarsi indietro.



Vorrei scrivere di questo film senza dire che sia il più bello della storia ma rimarcando quei venti minuti finali che straziano il cuore. Quei venti minuti, certo, potrebbero rientrare nella definizione di capolavoro, quelli di un patetico – micidiale – De Niro che vuole lasciarsi uno spiraglio, una porta socchiusa, quando ormai tutto è perduto e c’è il vuoto intorno. Martin Scorsese racconta la cruda verità: è quello che è, non c’è salvezza per nessuno, i suoi personaggi vengono presentati con un necrologio accanto, perché ad attenderli c’è un destino spietato tanto quanto lo sono loro. Vorrei scrivere di “The Irishman” senza parlare di un mondo svanito e di un cinema che non c’è più, perché per fortuna c’è stato ancora. C’è stato anche negli occhi di Joe Pesci, nel suo modo magistrale di rappresentare una sofferenza sommessa e allo stesso tempo potente, senza mai scomporsi, in opposizione all’egocentrico Al Pacino, fuori controllo ed esuberante, sempre perfetto. Vorrei scrivere di “The Irishman” evitando la carrellata di citazioni dei film precedenti di Scorsese, pensando invece a quell’omaggio sottile e bellissimo a “Il padrino” e pensando agli occhi di Anna Paquin, che quasi non ha proferito parola e che con uno sguardo ha restituito tutto l’odio e il dolore del mondo.


IL NOSTRO PARERE IN BREVE

Necessario - Un gangster movie malinconico, che mostra l'insospettabile lato umano del criminale.

PANORAMICA RECENSIONE

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