Un lungo periodo di gestazione ampiamente ripagato dal risultato finale: il bimbo è nato e gode di ottima salute. “The Wolf of Wall Street”, ultima fatica di Martin Scorsese è un rutilante dramma a 360 gradi e 180 minuti che fa urlare al capolavoro. Ispirato alle memorie del “lupo” Jordan Belfort, un broker americano arricchitosi sfruttando le proprie abilità e conoscenze borsistiche e l’ingenuità dei piccoli risparmiatori americani, il film, diretto da uno Scorsese in gran forma, si nutre e ci nutre con un immaginario suggestivo che ruota intorno alla avidità personale per svilupparsi a macchia d’olio tra cinismo, ambizione, incitamenti ed umiliazioni pubbliche. Nel ruolo di Belfort uno sfavillante Di Caprio, novello vincitore del Golden Globe e tra i favoriti per la prossima Notte degli Oscar, mentre l’affresco scorsesiano è arricchito dalle interpretazioni Jonah Hill, anch’egli nominato dall’Academy, Matthew McConaughey (che contenderà a Di Caprio la statuetta nella categoria Miglior attore), Jean Dujardin, Jon Favreau, una splendida Margot Robbie (nel ruolo della lupa, consorte di Belfort), Rob Reiner, Jon Bernthal e Kyle Chandler nelle vesti del buono, il cacciatore del lupo e agente FBI Patrick Denham.
Trama
Jordan Belfort è un giovane e ambizioso apprendista broker che, una volta acquisita la licenza, ottiene un importante impiego a Wall Street, sotto l’attenta guida dell’esperto Mark Hanna. Sfortunatamente, proprio nel giorno dell’insediamento, si verificherà il crollo della borsa, il celebre lunedì nero paragonabile al drammatico evento del 1929. Jordan, aiutato dalla moglie, si rimbocca le maniche e trova lavoro presso un modesto centro di investimenti dalle sembianze di un call center dove maldestri e poco preparati impiegati piazzano azioni di poco valore (le cosidette Penny Stock) ai risparmiatori americani. Ma truffare gente dalle limitate disponibilità economiche si rivelerà essere solo la punta dell’iceberg e mentre Belfort viene costretto a meditare dalla prima moglie, una presunta ritrovata moralità si trasforma in un bieco e sfrenato cinismo che lo porterà a creare una società privata insieme a un vicino di casa intrigato dai facili guadagni di Belfort. Insieme creeranno un impero finanziario basato sulla truffa, imponendosi uno stile di vita al limite, tra baccanali e consumo continuo di sostanze dopanti.
Giudizio
Orge composte in maggioranza da bionde mozzafiato caetofobiche, nani atletici rigenerati sotto forma di freccetta, da utilizzare in party aziendali, scimmie e leoni che passeggiano allegramente mentre uno sfortunato pesce rosso viene invece inghiottito da un famelico Jonah Hill. Ma, soprattutto, un lupo, il lupo Jordan Belfort, il capobranco alla ricerca della preda materializzatasi sotto la forma archetipica del risparmiatore americano. Ingenuo e convinto di poter vivere l’american dream in maniera onesta. Eppure il cinema ci ha mostrato che le scorciatoie verso fama, successo e denaro sono costellate dall’avarizia e dal cinismo. La mancanza di scupoli e di moralità, in “The Wolf of Wall Street”, sembra direttamente proporzionale alle capacità personali di frodare il prossimo. Sono il Re del Mondo, sembra pensare il Di Caprio broker di “The Wolf of Wall Street”, e il pensiero titanico viene rinvigorito da una simpatica citazione (“fidati di me”) che inserita in un drammatico contesto marino ci fa riflettere sulla assoluta dedizione alla quale lo spettatore deve consegnarsi per godere dei film di Scorsese. Citazioni più o meno mascherate, sono disseminate a testimonianza dell’amore per la settima arte, mai sopita, del regista newyorkese. Ma il re è nudo, letteralmente, e non è che le cortigiane siano così vestite, in realtà. Nell’abbondare di nudi integrali e atti sessuali più o meno perversi, si evidenzia la moralità dubbia che trasuda sin dalle prime immagini. Un degrado che avrebbe fatto imbestialire non poco Travis Bickle. The Wolf of Wall Street, dotato di effetti digitali nascosti, per un budget totale di cento milioni, costringe lo spettatore ad assumere un punto di vista poiché interpellato dai ripetuti sguardi in macchina del protagonista. E la possibilità di esimersi viene annichilita dal ripetuto voice-over di Belfort che sembra richiamare all’ordine e alla visione. E per questo disturba, oltremisura. Assistere alla pubblica umiliazione inflitta a una donna solo in cambio del vil denaro, o dover tenere gli occhi aperti duranti furibonde liti domestiche alla presenza della prole, ma soprattutto dover vedere un truffatore continuare ad arricchirsi e sguazzare nel denaro, tra mega ville e giganteschi yacht alla faccia di “sfigati” pendolari metropolitani con vestiti da pochi dollari, ci fa riflettere. Una riflessione alimentata da Scorsese, forse addirittura risolta in una esemplificativa scena verso la conclusione del film quando, passati 180 minuti, sarà difficile non aver scelto da che parte stare. Colonna sonora all’altezza della situazione, sia in funzione diegetica (e qui, nelle nostrane sale scapperà un sorriso) che extradiegetica, mentre non mancheranno carrellate “tipiche” della filmografia del cineasta americano e scene di ampio respiro che fanno urlare alla revisione immediata del concetto di horror vacui. Qui il superfluo è necessario, così come sembra essere essenziale ogni particolare del film come in un testamento da leggere e rileggere fino all’ultima postilla. Nella speranza che quello cinematografico di Scorsese arrivi il più tardi possibile.