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This must be the place: la recensione

Cheyenne (Sean Penn), ebreo, cinquantenne, ex rock star di musica goth, rossetto rosso e cerone bianco, conduce una vita più che da benestante a Dublino, trafitto da una noia che tende, talora, ad interpretare come leggera depressione. La vita di Cheyenne è quella di un pensionato prima di aver raggiunto l’età della pensione, ma la morte del padre, con il quale aveva da tempo interrotto i rapporti, lo riporta a New York. Qui, attraverso la lettura di alcuni diari, mette a fuoco la vita del padre negli ultimi trent’anni. Anni dedicati a cercare ossessivamente un criminale nazista rifugiatosi negli Stati Uniti. Accompagnato da un’inesorabile lentezza e da nessuna dote da investigatore, Cheyenne decide, contro ogni logica, di proseguire le ricerche del padre e dunque di mettersi alla ricerca attraverso gli Stati Uniti di un vecchio aguzino, probabilmente morto da molti anni.

This must be the place
L’esordio in lingua inglese di Paolo Sorrentino è per certi versi folgorante, ma per altri denota alcuni problemi di struttura narrativa, non sempre all’altezza dello splendido campionario visivo che il regista napoletano riesce ad imbastire. La caratterizzazione di molti personaggi secondari risulta banalizzante e quasi macchiettistica e Sorrentino mostra di possedere uno sguardo tanto affascinato e affascinante nei confronti di una realtà che come il suo protagonista (ri)scopre per la prima volta, ma anche piuttosto precondizionato, dando luogo a siparietti e situazioni bizzarre, ma non sempre convincenti. Funziona decisamente meglio il lavoro introspettivo e di costruzione drammaturgica del personaggio protagonista, un bambino di cinquant’anni che nel viaggio alla ricerca dell’aguzzino del padre trova il pretesto per un viaggio catartico e spia necessaria per avviare quella maturazione troppo a lungo ritardato. Cheyenne è un uomo che non ha mai avuto bisogno di crescere, poiché sin dall’adolescenza è rimasto intrappolato nella realizzazione del suo sogno musicale, cullato dal successo e viziato dalla fama; una fama che però – come si evince dall’emblematico confronto con David Byrne, che nel film interpreta se stesso e cura la splendida colonna sonora – non nasce dall’arte ma solo dalle mode, dall’espressione acritica di tendenze generazionali, dalla soddisfazione (e non costruzione) del gusto giovanile. Cheyenne vive nel culto del proprio passato, conservando la propria riconoscibilissima maschera, e sembra portarsi appresso un fardello troppo pesante che ne mina l’equilibrio: esattamente come i carrelli o i trolley che trascina stancamente per la strada. Un personaggio ondivago che esiste galleggiando e che trova nell’ironia e nella leggerezza l’unica possibilità decente di stare al mondo. “This must be the place” è un film ricco e complesso sia da un punto di vista strettamente tematico che da uno più prettamente visivo, sicuramente più meditativo rispetto ad un’opera come Il divo che faceva della sua deflagrante potenza espressiva e visionaria la sua forza. Qui le trovate sono meno numerose, concentrate soprattutto nella parte del viaggio in America e, come detto, meno convincenti. Il microcosmo irlandese dove Cheyenne si muove all’inizio del film, (tra una moglie che fa il pompiere (la sempre straordinaria Frances McDormand) con cui gioca a pelota in una piscina lasciata inspiegabilmente vuota, una giovane ragazza il cui fratello è scappato di casa legata a Cheyenne da un rapporto intimo di amicizia quasi filiale, e oscillazioni degli investimenti in borsa), sicuramente risulta più funzionale nella costruzione del racconto e meno bozzettistico rispetto al suo contraltare americano. “This must be the place” è comunque un’opera che lievita, cresce nel tempo dopo la visione, e lascia la sensazione di avere assistito a qualcosa di incompiuto, forse, ma anche incredibilmente affascinante, grazie anche ad un indimenticabile protagonista. Perché Cheyenne è un autentico, involontario portatore di gioia. E quando nel film Cheyenne afferma in modo candido e sfrontato che “la vita è piena di cose belle” si è portati a credergli. Perché è un bambino di cinquant’anni, ma pur sempre un bambino che parla e, da qualche parte, è rassicurante pensare che i bambini abbiano sempre ragione. [starreview tpl=16]

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