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Tom Waits: “Bad as me”. La recensione

Esistono, da qualche parte nel mondo, persone assolutamente fuori dal comune, persone che riescono ad essere demonio ed angelo, persone dalla voce graffiata come la loro anima ma che riescono a portarti in mondi fuori dal mondo, mondi dove anche l’ultimo degli ultimi ha voce e può dire l’inferno giornaliero che ha dentro e un secondo dopo portarti in un angolo di un triste e sperduto paradiso dove parlarti di come la vita non abbia mai avuto una carezza per lui. Voci distrutte dal vizio, dalle troppe sigarette, dall’alcool e dalla sfortuna, ma voci che hanno una melodia tutta loro e che sono un mondo a sé stante nel panorama della musica internazionale. Beh,  Tom Waits  è una di queste voci: il suo timbro vocale roco e riconoscibilissimo, lo stesso di successi come “I don’t wanna grow up” e di album come “Rainy Dogs“, torna per un nuovo disco, “Bad as me

Tom Waits - "Bad As Me" - Artwork

“Bad as me” è un disco da scoprire pezzo per pezzo. Un disco dove Tom Waits veste alternativamente i panni del moderno Caronte (la sua voce che urla “All aboard!” in “Chicago“) e del “crooner” anni ’50 (come in”Raised right men“), panni dove si sente in entrambi i casi a suo agio, come anche nei panni del bluesman da “torch songs” nel ritmo lento e compassato (come in “Talking at the same time“, dove si sente il profumo dei campi di cotone e dei “black men” della Louisiana).

Panni che è capace di smettere un secondo dopo per lanciarsi tra le note di “Get lost” in un folk-blues indemoniato tra chitarrine suonate a velocità folle e fiati che sembrano provenire dalle viscere della terra, quasi come un moderno anti-Elvis. Panni che si cambiano ancora per canzoni più dolci e tranquille, canzoni dove affiora il poeta dei derelitti, canzoni come “Face to the highway” e “Pay me“, con quest’ultima che come una ninna-nanna culla l’ascoltatore e lo porta sulle note del violino e della fisarmonica in una riflessione dolce-amara sulle cose con la sorpresa del pianoforte finale, un tocco da maestro, anzi da poeta.

Ma Tom Waits non è solo blues, è anche un grandissimo artista capace di destreggiarsi tra mille generi senza sfigurare in nessuno di questi, come dimostra nella canzone “Back in the crowd“, un motivo lento a metà tra il country e la musica mariachi, da ascoltare quando si guarda un tramonto e i suoi colori ti stanno ferendo l’anima e tu non sai il perché.

La canzone che dà il titolo al disco, “Bad as me“, suona distorta e ovattata nel suo suono retrò anni ’50 e farebbe la sua figura in un film alla Davyd Linch, con le sue atmosfere da crooner e la voce da moderno Mangiafuoco che ti invita allo spettacolo della sua anima tormentata.

Ma il Mangiafuoco sa subito dopo smettere i panni del cattivo ed indossare quelli del raffinato singer da pianobar che si fa accompagnare da un pianoforte ed un contrabbasso per cantare la raffinata “Kiss me“.

In questo disco non esiste un solo Tom Waits, ne esistono tanti, come anche quello da omaggio, quello che canta la godibilissima “Satisfied“, canzone scritta in onore dei Rolling Stones e del suo carissimo amico Keith Richards, che collabora alla canzone come chitarrista. Keith Richards che ritroviamo nella canzone forse più bella del disco, “Last leaf“, l’ultima foglia sull’albero che canta della sua tenacia e di come non cadrà e di come non la prenderanno (“Sono l’ultima foglia sull’albero/l’autunno ha preso le altre/ma non prenderanno me“), cantata insieme all’amico fraterno.

Il giro di una lancetta e ci ritroviamo catapultati nel ritmo energico e indiavolato di “Hell broke luce“, ritmata da mille colpi di batteria come un martello che pianta quadri di vita nel cuore, ma il tutto poi si stempera nella dolcezza della carola scelta come pezzo finale, “New Year’s Eve“, che chiude degnamente il disco.

Alla fine dell’ascolto si esce quasi spossati, senza energia, come se una parte di noi avesse viaggiato tra il paradiso e l’inferno per 44 minuti e 36 secondi, in un modo che forse neanche si riesce ad immaginare. Restano nel cuore solo alcune immagini difficili da dimenticare e che credo porterò per sempre con me, per ricordarmi che anche essere l’ultimo non significa non avere speranze a questo mondo. E se non sono speranze, è almeno un ottimo modo per cullare la tristezza di questo mondo davanti ad una birra, una sigaretta ed il tramonto che ci muore davanti per ricordarci di essere stati vivi un giorno in più.

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