1970. Andy Warhol e Paul Morrisey seguono la giornata di una povera coppia di selvatici che vive in uno squallido scantinato nel Lower East Side di New York e cerca in ogni modo di procurarsi da mangiare.
Il soggetto del film, l’uso effettivo di droga e momenti in cui i protagonisti mangiano spazzatura — oltre a varie scene di sesso esplicito — provocarono disagio fra molti spettatori del tempo.
Tag-line del film era «Non vuol dire che una cosa è un rifiuto solo perché l’hanno buttata fra i rifiuti», ed è forse questa idea l’unico punto di contatto che possiamo rinvenire con l’omonimo quinto lungometraggio di Stephan Daldry (Billy Elliot, The Hours, The Reader, Molto forte incredibilmente vicino) dal prossimo 27 novembre nelle sale.
Il soggetto di Trash è preso dall’omonimo romanzo di Andy Mulligan, ma mentre il target di quest’ultimo pare essere adolescenziale, alcune scelte stilistiche della sua trasposizione cinematografica alzano l’età dei possibili fruitori.
Sebbene il film sia ambientato nelle squallide e mortali favelas di Rio de Janeiro — ed è effettivamente stato girato tra Rio e Old San Juan a Porto Rico — , la storia non potrebbe essere più hollywoodiana: il plot ruota attorno alle rocambolesche vicende di tre ragazzini squattrinati che combattono l’ingiustizia a loro modo, probabilmente senza nemmeno rendersi conto della portata delle loro azioni.
Riempito con numerosi colpi di scena, inseguimenti in strada e climax di tensione —che conquisteranno sicuramente lo spirito degli spettatori occidentali alla ricerca di un qualcosa di famigliare e conosciuto nell’oscuro territorio del Terzo Mondo—, fra la spazzatura spicca il candore di due star hollywoodiane come Martin Sheen (The Amazing Spiderman, The Departed, Wall Street) e Rooney Mara (Her, Millennium- Uomini che odiano le donne, The Social Network) necessarie alla pellicola per aumentare le probabilità di successo in tutto il mondo.
Tre ragazzini, Raphael (Rickson Tevez), Gardo (Eduardo Luis) e Rato (Gabriel Weinstein), vivono in una favela in riva al lago e trascorrono le giornate smistando rifiuti alla discarica comunale vicino a cui abitano. Sopraffina la perizia del direttore della fotografia Adriano Goldman, che ci regala immagine aeree incredibili di questi uomini che brulicano nelle discariche come formiche in un formicaio, alla ricerca di non si sa cosa che possa farli arrivare a fine giornata.
Un mattino uno dei tre trova un portafoglio rosso, un pezzo di carta con un codice e dei santini. Tornando verso la favela in cui vivono l’insegnate di inglese missionaria —non riccamente delineata nel carattere— e padre Julliar, il cui computer è la loro finestra sul mondo —terribile come questi ragazzini vivano dei rifiuti degli altri ma possano navigare su internet—, i tre scoprono presto di aver a che fare con qualcosa che potrebbe cambiare le loro vite e quelle di molti altri.
Leitmotiv del film è il rifiuto dei ragazzi a rinunciare o tirarsi indietro quando sentono che sono sul punto di scoprire qualcosa di rilevante, non importa il pericolo ma ciò che è giusto fare —ecco che la sceneggiatura cade spesso in battute squisitamente familiari per un pubblico americano—.
La scorsa estate il mondo calcistico si ė riunito in Brasile a Rio per la Coppa del Mondo in cui la squadra di casa ha subito una perdita di proporzioni storiche. In testa ai giochi, i manifestanti sono scesi in piazza per protestare contro i fondi pubblici stanziati per l’evento sportivo mentre più 20% dei brasiliani vive in povertà. Ovvero: quando Panem et circensem non oblia più il malessere della popolazione.
Numerosi filmati documentari hanno puntato un riflettore sulla dilagante corruzione, ingiustizia e brutalità della polizia, ma nonostante ciò il Brasile purtroppo resta per gran parte del mondo occidentale un luogo di sole e carnevale. Che il film di Daldry non contribuisca ad abbattere questi stereotipi?