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Viaggio in paradiso: la recensione

“Viaggio in paradiso” (titolo originale, “Get the Gringo”), rappresenta una occasione di riscatto e rinascita per Mel Gibson, moderna fenice abbattuta dalle fiamme dell’alcol, dalle ingiurie antisemite e dalle violenze fisiche e psicologiche perpetrate all’ex moglie. Un ruolo tutto nuovo per l’attore che sembrava giunto al tramonto in seguito alla grancassa mediatica degli ultimi anni, accompagnata da processi, offese alle forze dell’ordine e revisionismi storici non proprio adeguati. Se “Mr Beaver”, dell’attrice e amica Jodie Foster, ha segnato l’inizio di una nuova carriera cinematografica per Gibson, “Viaggio in paradiso” con quella irresistibile atmosfera alla messicana, la rafforza e la indirizza verso nuove possibili strade. Non a caso, l’attore sarà protagonista del sequel di “Machete”, diretto da Robert Rodriguez.

Il film

Mel Gibson è un autista in fuga dai sicari di un pericoloso boss e dalla polizia che , una volta oltrepassato il confine con il Messico, viene coinvolto in pauroso incidente che lo consegnerà inevitabilmente alle corrotte forze dell’ordine locali. L’uomo senza passato, non avendo né documenti né impronte digitali, viene trasferito nel famigerato carcere-favelas El Pueblito, in località Tijuana mentre gli agenti messicani sequestreranno il ricco bottino all’interno della macchina: una borsa piena di dollari. Nel carcere il rapinatore farà amicizia con un bambino di dieci anni, destinato a donare il suo fegato a Javi, il potente boss della prigione.

Mel Gibson in Viaggio in paradiso

Giudizio sul film

La pellicola diretta da Adrian Grunberg parte in quarta, ad alta velocità come l’inseguimento tra le lande desolate del confine messicano dove il rapinatore in fuga, con il viso coperto da una maschera da clown, ingaggia un duello con la polizia locale, Catturato, dopo una pirotecnica rincorsa, con tanto di macchina ribaltata, il fuggitivo viene portato nel celebre carcere di El Pueblito, non proprio un penitenziario convenzionale ma un vero market a cielo aperto e porte chiuse. All’interno di El Pueblito si può comprare di tutto, dalle sigarette agli alcolici, vige la regola del più forte e della giustizia sommaria. Se ne accorge ben presto anche Driver (Gibson) trasformato in una sorta di eroe messicano, duro ma dal cuore tenero che cercherà di impedire l’ignobile scambio di organi tra un bambino di dieci anni e il crudele criminale Javi.

“Viaggio in paradiso” ruota soprattuto attorno alla figura di Gibson, capace di interpretare un irresistibile criminale che provoca una involontaria empatia. Eppure, ha il grilletto facile, è un truffatore, non si fa scrupoli ad aggredire altri detenuti per soldi, appicca incendi. Ma, allo stesso tempo, salva una donna da uno stupro e si occupa del “giovane” abitante del carcere, dal destino già segnato. Le sfaccettature caratteriali del protagonista unite a un codice morale – a volte – condivisible permettono a Driver di diventare un paladino della giustizia ed a noi non resta che parteggiare per lui. È interessante analizzare la messa in scena di Gibson, dotato della capacità di distinguere – lucidamente – tra bene e male e di compiere – paradossalmente – sempre la scelta giusta. Nella sottotrama romantica, con l’autista “padre in prestito” che lotta per la vita del piccolo amico di El Pueblito, risiede la evidente voglia di donare all’attore – dall’immagine gravemente macchiata – una parvenza di umanità, seppur limitata al ruolo cinematografico.

La pellicola trae forza dalla irresistible location ben ricostruita con tanto di simbolismi religiosi, interpreti tatuati, incontri di lucha libre e musica mariachi in sottofondo. L’atmosfera da B-movie garantisce una certa morbidezza alla storia, permettendo di soprassedere sulle lacune della sceneggiatura e concentrarsi sull’istinto visivo debitamente caricato da inseguimenti, esplosioni ed ammazzamenti vari, con sfumature pulp che richiamano il cinema di Robert Rodriguez.

Consigliato

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