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“Woody Allen: a documentary”: la recensione

Robert Weide ha seguito per un anno e mezzo il regista Woody Allen prima di approdare a “Woody Allen: a documentary“. Nel mondo del cinema si tratta di un grande evento, perché fino ad oggi il regista di “Manhattan” non aveva mai voluto offrire la possibilità di realizzare un biopic su di lui.

Sala gremita a Firenze per la presentazione del film durante la prima edizione del Tribeca Firenze, i fan di Woody Allen sono davvero moltissimi, nonostante non siano in pochi quelli che criticano il suo stile. Nel corso degli anni, infatti, abbiamo visto film non sempre eccellenti, soprattutto nell’ultimo decennio sono stati ben lontani da quelli degli esordi.

Robert Weide percorre l’intera carriera del regista, con Woody Allen visita i luoghi della sua infanzia e si lascia raccontare com’era da piccolo, com’è esploso, poi, come commediante, fino a diventare quello che è oggi, una pietra miliare della settima arte, già entrato a far parte della storia.

Da piccolo Woody odiava la scuola ed anche il suo nome vero, Allan Stewart Königsberg. Il suo nome d’arte, quello con cui oggi lo conosce tutto il mondo, è nato per caso, quando ha iniziato ad inviare le sue prime battute comiche ad Earl Wilson. E’ da lì che inizia a farsi notare e in seguito arrivano i primi approcci con la televisione: nonostante il successo e l’apprezzamento di pubblico e critica, Allen è sempre sembrato sofferente durante la recitazione, ma allo stesso tempo ha saputo regalare battute e sketch geniali, che hanno reso il suo stile unico ed inconfondibile.

Woody Allen: a documentary

Nel momento in cui sono arrivati anche i suoi primi film e le sue muse, da Diane Keaton a Mia Farrow(passando anche per lo scandalo che causò la fine del loro matrimonio), fino alla più recente Scarlett Johansson, Woody Allen ha sentito su di sé la pressione del pubblico: ad ogni film aumentavano anche le aspettative. Dopo aver visto completamente modificata la sua sceneggiatura di “Ciao Pussycat“, il regista decise di lavorare da solo, in totale libertà e nel 1966 sfornò “Che fai, rubi?”. Tra “Provaci ancora, Sam“, “Bananas” e “Io e Annie“, Woody Allen continuava a compiacere pubblico e produttori, ma la troppa frequenza di film realizzati ha iniziato ad intaccare il suo successo e forse anche la sua ispirazione. Fin dal principio, il regista newyorchese mostra tutte le sue scartoffie, pezzi scritti qua e là per il mondo negli alberghi, fogli che tutt’ora conserva alla ricerca della scintilla per il prossimo film. Praticamente ad oggi Allen realizza un film all’anno e, come spiega lui stesso, lo fa seguendo la regola della quantità: le critiche arrivano in abbondanza, ma visto che abbondano anche i film, prima o poi uno buono, su tutti, verrà fuori.

Il documentario di Robert Weide è arricchito da vecchie gag degli esordi della carriera dell’occhialuto Allen e delle testimonianze di amici e colleghi. Tutti gli attori che hanno lavorato con lui parlano della libertà che Woody lascia durante le riprese, permettendo loro di essere naturali senza imporsi, pur mantenendosi esigente.

Lo stesso regista, dopo aver visto il documentario, ha rivelato che non si sarebbe mai aspettato che tutti parlassero bene di lui. Robert Weide ha regalato un vero e proprio tributo al regista ed attore di “Midnight in Paris“, in cui affronta le problematiche della carriera senza addentrarvisi troppo, quasi come a non voler offendere il protagonista della sua opera, portandolo su un piedistallo. Visto che a raccontare il tutto c’è proprio Woody Allen, con tanto di passeggiata nella sua amata New York, è impossibile pensare ad un’opera narrata con obiettività, ma piuttosto ci troviamo di fronte ad un biopic realizzato sapientemente per elogiare uno dei più grandi registi del cinema americano. Che poi piaccia oppure no, quella è un’altra storia.

Voto:

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